Se non si parte dal merito, non si riparte
Non mi pare un buon messaggio quello lanciato da Giorgia Meloni a Milano sulla scuola senza bocciati. Negativo per la scuola e per la società, ma anche per la politica. Lei si riferiva al modello scolastico britannico, noto come A-levels, dove non esistono promozioni o bocciature a fine anno ma “una certificazione accurata e fedele del livello di conoscenze che hai effettivamente raggiunto”. E propone borse di studio per i capaci e i meritevoli. Ma ammesso e non concesso che quello britannico sia un sistema scolastico esportabile e degno di imitare, resta il vero problema: l’essenza del messaggio che arriva al nostro Paese e come probabilmente verrebbe tradotto nella scuola italiana e nella società italiana, con i nostri precedenti, il nostro personale scolastico e il nostro clima. Già tanti anni fa si volle sostituire il voto con il giudizio, che avrebbe dovuto essere il frutto di un più accurato e fedele rapporto sugli studenti. Ma ogni volta che da noi si decide di non bocciare, inevitabilmente si dà un colpo letale alla meritocrazia, alla selezione, al riconoscimento di meriti e capacità. E si dà una robusta mano al fancazzismo, all’egualitarismo livellatore, alla deresponsabilizzazione generale. Si rianimano i fantasmi del ’68, la demagogia scolastica degli anni settanta, lo smantellamento di ogni impegno severo ed efficace. Ogni sistema sociale deve prevedere premi e penalità, riconoscimenti e bocciature, se non vuole degenerare. Dal punto di vista teologico e morale, è come l’abolizione dell’inferno che toglie alla religione il timor di Dio e l’attesa del giudizio finale commisurata alla propria condotta di vita; il meglio che ne deriva è una certa rilassatezza e la sostituzione della giustizia divina con la bontà e l’indulgenza plenaria. Il peggio è una sostanziale irrilevanza del tema religioso e del rispetto di alcuni principi e norme di vita.
Ma il tema sollevato sulla scuola ricade sulla società e sul più vasto tema del merito. In una società che disconosce il merito, lo nega, lo mortifica, lo calpesta, non si può lanciare un messaggio di questo tipo, fosse pure animato dalle migliori intenzioni. Perché arriva come un segnale di ulteriore lassismo, un’inversione di tendenza rispetto all’abituale, seppur solo declamata, preferenza della destra per il merito.
Credo, invece, che il tema del merito debba essere ripreso come prioritario, necessario, centrale nella nostra società. Dopo la sbornia egualitaria della sinistra, dopo la tendenza livellatrice della società di massa, dopo lo sbarco dei grillini demeritocratici al potere, con uno sciame di esempi, modelli e leggi (a partire dal reddito di cittadinanza) che mortificano i meriti e le capacità personali, urge una svolta e un cambio radicale di tendenza. Non è nemmeno l’avanzata epica del Quarto Stato, secondo l’immagine famosa di Pellizza da Volpedo; ma è lo stato avanzato di putrefazione di una società che non è in grado di riconoscere la realtà, le differenze, il talento e lo sforzo.
Il nostro Paese non funziona e non desta la fiducia dei suoi cittadini perché è fondato sulla negazione dei meriti e delle capacità. I criteri di gratificazione, di assunzione e di nomina sono viziati e sottoposti ad altre priorità: l’appartenenza a un determinato clan (ieri la famiglia, oggi contesti di potere, di setta e di lobby); la complicità, la condiscendenza, fino all’asservimento dei sottoposti; l’affinità ideologica o politica; l’utilità clientelare. Tutto a discapito non solo delle persone, della giustizia sociale, dei meriti e dei demeriti, ma anche della qualità, dell’efficienza, dei risultati e dei servizi.
Il merito e la capacità, il talento e la fatica non contano nella nostra società, sono al più una dotazione secondaria e subordinata; al peggio sono di ostacolo. Anche perché abbiamo costruito, a partire dalla politica, un sistema di potere fondato sulla proliferazione della mediocrità: chi è mediocre ai vertici, si circonda di persona che non lo sopravanzano ma sono più mediocri di lui; e via via cascando sempre più in basso, ad ogni gradino della scala sociale. Il mediocre vuole che chi è sotto di lui non abbia capacità superiori alle sue, perché rischia di essere scavalcato e comunque di non controllarlo. Invece, se il mediocre chiama il più mediocre, la filiera regge e il potere non è messo in pericolo. La stessa cosa avviene con le élite, dove i palloni gonfiati ma allineati prendono il posto delle vere eccellenze emarginate e disconosciute.
Che piramide sociale ne esce fuori e con quali effetti è facile immaginare. Far saltare questa catena è necessario, perciò il messaggio radicale dovrebbe essere quello di valorizzare al massimo i meriti e le capacità, riattivare l’ascensore sociale, fermo da troppo tempo. Ovvero riconoscere le qualità innate e le qualità acquisite con lo studio, la ricerca, il lavoro. Quella che Michael Jung battezzò come meritocrazia e che Adrian Wooldridge definisce nel suo recente libro L’aristocrazia del talento, che descrive “come la meritocrazia ha creato il mondo moderno”.
Una società giusta pone l’eguaglianza come base e l’aristocrazia come altezza; e il riconoscimento come ascensore tra l’una e l’altra. L’una è condizione di partenza, come su altri piano è la tutela dei bisogni primari; l’altra è punto di arrivo, fermo restando che la società si articolerà e si scaglionerà in una scala di gradini intermedi, ciascuno secondo i suoi meriti. Per questo, anche solo parlare di una scuola senza bocciature, dopo decenni di sessantottismo livellatore, diventa comunque una cattiva premessa. Meritate gente, meritate.
La Verità (6 maggio 2022)