Simone Weil
Simone Weil, la bruttina non stagionata
Uccello senza corpo, piegato su se stesso, in una mantellina nera, gli scarponi neri pesanti; silenziosa, straniera e indagatrice, seduta in disparte, brutta a prima vista, almeno da adulta; il corpo assente, devastata dalla miopia, con gli occhi protesi a osservare il mondo da siderale distanza e acuta prossimità, avevi l’impressione di trovarti davanti ad un corpo estraneo, forse maledetto, e così poco umano.
Vedo Simone Weil nelle sue rare foto e poi attraverso gli occhi di un poeta che la conobbe, Jean Tortel, e noto che il suo aspetto tradiva il suo pensiero: così sgraziato il primo, così pieno di grazia il secondo…
Perché scrivere di lei? Perché domani è il primo maggio e lei è forse l’unica pensatrice della condizione operaia e della vita in fabbrica. Poi perché è uscito un suo volumetto, 15 Meditazioni. Ma soprattutto perché il suo nome circola, come una filiera sommersa in Rete, tra ragazze e ragazzi scontenti dell’ottusità spirituale del presente. Circolano i suoi pensieri trasversali, tra rivoluzionari, tradizionalisti, gruppi politici o religiosi, femministe e credenti, si allestiscono mostre, pièce teatrali, gruppi di lettura.
Se vogliamo capire il presente, l’Europa spenta e il dominio dei tecnici e della finanza, l’antipolitica e il disprezzo verso i partiti, il nichilismo sociale e la spinta glocale, la santità e il sacro oltre la religione, dobbiamo leggere quella strana signorina che morì a 34 anni nel ’43.
Simone Weil apparve torva alle autorità scolastiche quando insegnava filosofia e sovversione. I rapporti scolastici la descrivevano come una sobillatrice, invasata d’ideologia e operaismo. O come un marziano – così la definì affettuosamente il suo maestro Alain – da tenere sotto osservazione, magari a distanza, allontanandola dagli alunni. Così appariva il suo astratto e rigoroso integralismo che applicava a partire da se stessa.
Maledetta apparve anche ai compagni rivoluzionari, quando preferiva Trotzkij all’ortodossia socialista e sindacalista (ma Simone era a sua volta criticata da Trotzkij); quando denunciava l’irrigidimento dogmatico e violento del comunismo, quando amava la verità sopra il partito e l’umanità sopra le leggi del progresso e della storia.
Molesta si rivelò per i repubblicani anarco-marxisti quando li raggiunse in Spagna e cagionò più guai che sostegno ai combattenti. Simone giudicò con orrore i suoi stessi compagni antifascisti per le loro violenze gratuite contro preti e fascisti, anche innocenti. Non furono pochi, del resto, i repubblicani che andarono in Spagna per combattere contro il fascismo ma tornarono inorriditi dal comunismo: capitò anche a George Orwell che poi lo scrisse in Omaggio alla Catalogna e tra gli italiani a Randolfo Pacciardi, che tornò anticomunista.
C’è un passo splendido che racconta la purezza dell’impegno rivoluzionario di Simone e la sua sete di martirio: «Mi sdraio supina, guardo le foglie, il cielo azzurro. Giornata bellissima. Se mi prendono, mi uccidono… Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice». Simone caricava su di sé le colpe della sua parte ed era pronta a scontarle sulla propria vita.
Maldestra fu Simone Weil in fabbrica quando pretese di trasformarsi da intellettuale, insegnante e borghese, in semplice operaia alle prese con la fresatrice; ma era impacciata e rendeva poco, nonostante la sua attenzione e il suo sforzo. Di pensiero acuto ma di manualità goffa, come il suo modo di vestire e di muoversi, la sua miopia ne impacciava ulteriormente i movimenti. L’enracinement – tradotto in Italia con La prima radice – è forse il canto più intenso del radicamento, l’amor patrio, la tradizione e l’onore, scritto da un’autrice che pure veniva da un’esperienza socialista e anarchica.
Gran parte delle sue pubblicazioni le dobbiamo alla cura di uno scrittore cattolico e tradizionalista, Gustave Thibon, e di Padre Perrin. In Italia fu amata dal rivoluzionario Franco Fortini, suo traduttore, e dal cattolico tradizionale Augusto del Noce che le dedicò un memorabile saggio rifuso ne L’epoca della secolarizzazione. Fu pubblicata dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti e da Borla e Rusconi grazie ad Alfredo Cattabiani e a Cristina Campo, prima di diventare autrice di culto dell’Adelphi.
Simone Weil denunciò la scomparsa simultanea dell’ideale e del reale nel nichilismo, la perdita del senso concreto e del soprannaturale come malattia dell’Europa. Che coincide con la perdita del passato: «la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale». Il passato è il deposito di tutti i tesori spirituali, «la perdita del passato equivale alla perdita del soprannaturale». Nel colonialismo inflitto ai popoli extraeuropei la Weil legge il destino del colonialismo afflitto di cui sarà vittima l’Europa.
E il passato, una volta perso, «non lo si ritrova più». L’uomo con i propri sforzi costruisce parzialmente il suo avvenire, ma non può fabbricarsi il passato, può solo conservarlo. Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, scrive Simone, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana. Le nazionalità in Europa, notava, saranno presto insidiate dalla frammentazione, dai localismi, dalle patrie regionali. La nazione si troverà schiacciata tra «scale molto più piccole e scale molto più grandi»: allude al locale e al globale che verranno.
Intuì l’Europa unita come luogo di riconoscimento delle identità diverse e delle tradizioni. L’Europa, per lei, è una specie di media proporzionale tra l’America e l’Oriente, anzi il perno. Noi europei ci troviamo nel mezzo, siamo letteralmente mediterranei. Solo l’equilibrio annulla la forza. Proiettate questi pensieri nel presente, nell’Europa che rifugge la propria identità e il proprio passato, che non riesce a comprendersi come luogo d’incontro tra Oriente e Occidente e non riesce a capire che la sua centralità, la sua regalità, è nella sua mediterraneità.
Quell’intuizione metafisica è pure intuizione geopolitica e strategica. Ma la lettura canonica la tratteggia solo come una pensatrice gnostica e femminista, anoressica e asessuata, ebrea antinazista, con la sua religione intellettuale, disabitata di Dio, di riti e di fede. Poi il silenzio. Ma il silenzio prevale sulla parola, direbbe lei, la precede, la alleva e le sopravvive, ereditandone il senso.
Della sua femminilità resta solo un’immagine sfuggente: quando per farsi assumere in fabbrica alla Renault accettò che la sua amica e omonima Simone le mettesse il rossetto sulle labbra e un po’ di cipria sulle guance. L’impiegato, che in precedenza l’aveva respinta, l’assunse senza difficoltà.
Per una volta nella vita volle essere graziosa e perfino seduttrice, e per conquistare non degli uomini, ma un posto in fabbrica. Per una volta il suo animo planò sulla terra e incarnandosi assunse fattezze umane, perfino femminili.
MV, Il Giornale 30 aprile 2014