Camus. La rivolta, l’Africa e il comunismo
“Tutti i continenti si rovesceranno sulla vecchia Europa. Sono centinaia di milioni. Hanno fame e non temono la morte. Noi, non sappiamo più morire né uccidere. Bisognerebbe predicare, ma l’Europa non crede in niente”. Non sono le parole di un autore reazionario della vecchia Europa, angosciato per il tramonto dell’occidente e spaventato per l’invasione dei migranti. Ma sono parole di un immigrato algerino che militò nel Partito Comunista, predicò la rivolta e fu considerato un simbolo dell’emancipazione africana e del socialismo libertario. È Albert Camus.
Il fato si prese gioco di lui il 4 gennaio del 1960. Doveva rientrare dalla Provenza a Parigi, aveva il biglietto del treno, ma l’editore Michel Gallimard lo convinse a partire con lui in auto. Morirono in un incidente stradale, su cui gravano misteriose ombre. Trovarono Camus privo di vita ma con il volto sereno e stupito; aveva in tasca il biglietto ferroviario della salvezza mancata. Portava con sé pure il manoscritto de Il primo uomo, che segnava il ritorno al padre e alla terra d’origine. Camus non aveva ancora compiuto 47 anni, ma aveva già ricevuto il premio Nobel, era un personaggio di culto. Scrittore di grido, intellettuale di denuncia, star del teatro e dei giornali. E ribelle, mezzo precursore del ’68. Di lui si celebra il lato corretto e scontato, la critica al nazismo e alla pena di morte, la resistenza e lo spirito laico e libertario laico, l’insofferenza, l’intellettuale gauchiste, la sua origine umile di immigrato algerino. Meno si ricorda la sua rottura col Partito Comunista, la sua polemica con Sartre, cattivo maestro, e la sua spiccata solitudine rispetto agli intellettuali organici, accusato da loro di essere un “moralista disimpegnato”; il suo senso religioso dell’assurdo e la sua diffidenza per la ragione storica progressiva; il suo amore per la cultura e la luce mediterranea, la predilezione per la bellezza e il pensiero neoplatonico.
Lo accusarono prima di promuovere la cultura delle classi dominanti e di servirsi del teatro che dirigeva per corteggiare le ragazze. Poi lo accusarono di rubare i fondi. Quindi le accuse classiche, di trotzkismo e infine di essere “uno schifoso fascista”. A sua volta lui accusò il marxismo di aver incitato alla diffidenza verso l’Uomo e di aver ridotto la vita alla sua sfera materiale ed economica, senza considerare il senso spirituale dell’esistenza. L’espulsione dal Pc risale al 1938 ma la frattura si consuma negli anni e poi al congresso per la libertà della cultura il 1950 a Berlino. Lui, Lèon Blum, André Gide, Paul Mauriac, Raymond Aron vengono trattati dal Pc e dai suoi intellettuali organici da venduti.
Camus cercò di rianimare il pensiero con l’arte e con la vita, provando a fondere filosofia e letteratura. Il suo pensiero, sulle orme del suo insegnante Jean Grenier, si radica nel paesaggio, nel sole, nel mare, nei colori del Mediterraneo. Pensiero meridiano chiamò Camus la sua geofilosofia; “il Mediterraneo dove l’intelligenza è sorella della luce cruda”. Nella sua visione del mondo affiora il lucore dell’infanzia algerina e poi della Provenza, descritti nei suoi saggi solari sull’estate e il ritorno. Una passione speciale nutrì Camus per l’Italia, vista come sintesi tra la sua terra nativa, l’Algeria (“la dolcezza di Algeri è piuttosto italiana”) e la sua terra d’elezione, la Provenza. L’Italia, scrive ne Il rovescio e il diritto, è la “terra fatta secondo la mia anima”. Folgoranti gli scritti dedicati al mare, alle isole e all’ispirazione mediterranea sulla scia di Paul Valéry.
Per Camus la rivolta è una ribellione metafisica contro la condizione umana, non riducibile alla rivoluzione sognata dalle ideologie totalitarie di massa. La rivolta di Camus conserva il fremito della libertà e l’impronta della solitudine, non si fa mai imposizione. La sua rivolta non nasce dall’insofferenza verso il reale, dall’odio per l’esistente e verso la propria patria, ma al contrario: “Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore”. Non l’utopia del mondo migliore e dell’uomo nuovo, ma solidale fratellanza con l’uomo e il mondo reale. Il ribelle camusiano preferisce “morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio” e nel mito di Sisifo aggiunge: “ciò che si chiama ragione di vivere è allo stesso tempo un’eccellente ragione di morire”. Il suo ribelle non cade nel narcisismo del dandy ma neanche nel cupo settarismo del rivoluzionario di professione. Camus non celebra la morte di Dio ma lotta con Dio e col fato, incessantemente. La solitudine come sete d’eternità, gli dei che “parlano nel sole e nell’odore degli assenzi…”. La filosofia di Camus combacia col mito e soffia con il vento della vita.
La morte precoce lo rubò alla vecchiaia, al compimento dell’opera e del suo cammino di vita. Camus restò incompiuto come l’uomo in rivolta e il suo Sisifo; condannato dal fato all’eterna, irrequieta giovinezza. Coltivò un intenso amor patrio distinto dal nazionalismo e declinato attraverso la nostalgia. Fu l’amore di un’assenza e di una lontananza, come si conviene a un emigrato che non smette di amare la sua madrepatria. “La patria si riconosce sempre al momento di perderla… È il tempo dell’esilio, della vita arida, delle anime morte. Per rivivere ci vuole una grazia, l’oblio di sé o una patria”. Camus sognava di tornare a vivere in Algeria con sua madre, perché, diceva, è un paese d’uomini, duro e indimenticabile. Aveva nostalgia del sole e della luce, soffriva il grigiore piovoso di Parigi. Il suo pensiero planava nella luce e nel mare di Grecia o d’Italia, era di casa a sud. Così nasce il suo “pensiero meridiano”.
MV, La Verità 4 gennaio 2020