Fascismo olimpionico: il mito dello sport
Fascismo olimpionico: il mito dello sport
“Ora non c’è più che lo sport! La guerra d’Africa e lo sport! Non si pensa ad altro. Ma cos’è poi questo sport?” Così s’interrogavano nel profondo sud degli anni trenta, i protagonisti di Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi.
Il mito dello sport è stato uno dei tratti salienti e specifici del fascismo, della sua ideologia e del regime, del consenso popolare che raccolse e della mobilitazione di massa che promosse. Ma il mito dello sport è al tempo stesso uno dei tratti che più hanno avvicinato il fascismo alla sua epoca, alla modernità, e all’americanizzazione. Da un verso lo sport dava al fascismo la possibilità di celebrare la volontà di potenza e di incarnare il mito del superuomo, di esaltare il vitalismo e il culto della giovinezza, di concepire la vita come la continuazione della guerra con altri mezzi e di mobilitare il popolo, le donne, i giovani nella partecipazione militante ad eventi e parate che creavano coesione sociale e rito collettivo. Lo sport consentiva al fascismo di riprendere il culto classico, greco-romano, dell’agonismo e il mito dell’atleta, come di un eroe in tempo di pace, caro agli dei e ai popoli; l’elogio del corpo muscoloso e armonioso, il mito dell’educazione fisica e il valore pedagogico della ginnastica. L’igiene della vita attraverso l’idea romana di mens sana in corpore sano. Ma anche la ricerca del primato e la prova di forza, il coraggio e la prestanza fisica, l’aspirazione imperiale a grandeggiare e a vincere.
Ma dall’altra parte il fascismo partecipava al mito della sua epoca, celebrato nello sport di massa e nel culto del record, la concezione anglosassone poi massificata negli Stati Uniti dello sport come grande catalizzatore di energie e di simboli, fattore di coesione sociale e di salute pubblica. Nello sport si celebravano tutti i miti della modernità: il culto della velocità e il corpo liberato, lo spettacolo della forza e la forza dello spettacolo, il primato dell’azione e il pragmatismo, l’emancipazione femminile e l’ansia da prestazione, il prolungamento della giovinezza e l’esuberanza delle energie vitali. In questo, il fascismo partecipava allo spirito della sua epoca, era figlio di quel secolo che aveva ripristinato le Olimpiadi e aveva reso lo sport un formidabile strumento di ricreazione e divertimento, a volte il nuovo oppio dei popoli (o un’eccitante cocaina, in certi casi).
Contraddittoriamente lo sport era il punto che più inseriva il fascismo nella corrente della modernità e insieme più lo collocava nel solco classico che celebrava il culto dell’atleta. Il filo conduttore poteva dirsi un sottinteso paganesimo che esalta il corpo, il vigore e la bellezza, la salute e l’ardimento e considera gli eroi dello sport come divi o semidei.
Il culto dello sport ha attraversato le culture civili e politiche del novecento, a cominciare da quelle più innovative e rivoluzionarie: difatti, il mito dello sport fioriva nelle società in cui si celebrava il mito dell’uomo nuovo, del mondo nuovo e dell’ordine nuovo. Vale a dire l’americanismo e il nazionalismo, il comunismo e il fascismo; accomunate da quella passione futurista che contagiò Roma e Parigi, Mosca e New York e che fu il pendant artistico-letterario del mito sportivo e dinamico. Anche il consenso al comunismo di Stalin e dei paesi dell’est, di Mao e poi di Castro non è immaginabile senza la mobilitazione agonistica, l’uso politico e sociale dello sport, la parata e l’esibizione, la gara come metafora della guerra, la vittoria sportiva come preludio e allegoria del trionfo della Rivoluzione. Le società di ginnastica, i Wanderwogel e i club sportivi furono formidabili incubatrici del nazionalismo in Germania. Sono noti i testi di George Mosse che evidenziano il nesso tra l’esaltazione e la propagazione dello sport e l’esaltazione e la propagazione del nazionalsocialismo. Nel culto dello sport si ritrovava tutto l’album ideologico e letterario che aveva portato al fascismo: l’ardimento dannunziano e lo spirito nietzschiano, lo stil nuovo marinettiano e il mito imperiale della romanità e del panem et circenses.
L’Italia fascista fu attraversata da miti sportivi largamente popolari e fortemente valorizzati dal regime e dai suoi mezzi di informazione e propaganda: da Girardengo, il mitico ciclista che inaugurò l’epoca degli eroi a pedali, culminata poi in Coppi e Bartali, alle trasvolate atlantiche di Balbo, alle imprese automobilistiche di Tazio Nuvolari, alla Nazionale di Pozzo, Piola e Meazza, o le dinastie calcistiche dei Ferraris e dei Caligaris, fino al mito di Primo Carnera. Miti che portavano al fascismo non solo un indiretto beneficio di immagine. Quando Vittorio Pozzo fa cantare negli spogliatoi prima di ogni partita ai calciatori gli inni nazionale e i canti del fascismo o quando gli atleti dal podio o dallo stadio rivolgono il saluto romano, la promozione del fascismo tramite lo sport marcia e si propaga velocemente. In Carnera, in particolare, l’Italia trovò un triplice riscatto: dei poveri emigrati italiani nel mondo, essendo anch’egli partito da emigrato in Francia; il riscatto del paesano, rachitico, debole, vigliacco e di bassa statura, rispetto ai giganti americani e negri; e infine il riscatto della provincia profonda e contadina rispetto alla metropoli impiegatizia e tecnologica. Ma tutti questi motivi diventarono ancillari rispetto al mito del gigante buono, dell’uomo più forte del mondo, dell’eroe italiano che porta in alto nel mondo il tricolore e l’Italia fascista. Non solo a livello di atleti ma anche a livello di masse, il regime fascista fu un regime sportivo.