Il populismo si fa legge

Alla fine di settembre, dopo lunga gestazione, il populismo si è trasformato da parola in fatto. La manovra del popolo, come l’ha battezzata Di Maio, è l’Atto di nascita del populismo, il suo passaggio da diceria a legge, da invocazione a investimento. In quella manovra è condensato il suo messaggio: prima il popolo, a partire dai più poveri, prima i bisognosi, i disoccupati, le pensioni da fame e poi il resto del mondo, le direttive europee, le banche, i tetti da rispettare e via dicendo. Vedendoli festeggiare sul balcone, qualcuno ha richiamato Mussolini, d’Annunzio e altri paragoni storici impropri. In realtà c’era qualcosa d’infantile in quell’esultanza. Pensare che un ragazzo con la faccia da prima comunione, benché biministro e vicepremier, possa dire senza timore del ridicolo di aver abolito la povertà, è cosa che si può capire solo se è un bambino in stato di euforia, in pieno gioco; altrimenti si dovrebbe dire che è un demente. Vedendoli gioire, sembrava una scolaresca che esulta dopo aver visto i quadri – tutti promossi! – e poi scende per strada a festeggiare la licenza elementare.

Prima d’esprimere qualunque giudizio va considerata la malafede euroservile, il disprezzo per il popolo, di chi li ha preceduti. Il populismo è una cosa seria se preoccupa mezzo mondo e suscita il consenso popolare dell’altra metà, se corre dall’Atlantico agli Urali, se colpisce le democrazie europee e va al governo. La sfida temeraria all’establishment globale in via di principio la condivido. Sostengo da anni che la vita reale dei popoli vale più dell’assetto contabile degli stati. Però di fronte ai grillini e ai loro redditi di cittadinanza, alla pretesa di quadrare il cerchio mandando prima in pensione gli anziani, mantenendo i giovani disoccupati e i poveri coi soldi dello Stato, innalzando le pensioni basse e al tempo stesso abbassando le tasse, ti chiedi come sia possibile. Se poi consideri chi sono, cosa facevano, che titoli hanno, ti rendi conto che dietro la manna non c’è un progetto serio, non c’è la ricerca di un laboratorio di cervelli, non c’è esperienza di vita o di lavoro, non c’è perizia imprenditoriale; c’è solo spirito puerile d’avventura, per dirla in modo benevolo. Se tutti incassano e nessuno ci rimette, dove sta la fregatura? Sulla durata, sul fatto cioè che sconteremo domani quel che ci beviamo oggi, e pagheremo caro? O sul fatto che il peso cadrà sulle spalle dell’altra metà d’Italia, quella che fatica, quella che tira avanti la carretta? Possibile che prima d’ora nessuno in Italia o all’estero abbia mai pensato che la soluzione alla crisi era così semplice, così a portata di mano: regaliamo soldi a chi non ne ha, e tutto si rimette a posto? Il problema era solo evangelico, carità di Stato? Nessuno è in grado di moltiplicare i pani e non i tassi d’interesse. E resta l’incognita enorme di come funzionerà, come si assegneranno i pacchi dono.

Ma è questo il populismo? Diciamo che il populismo ha almeno tre gradi che possiamo paragonare a un corso di studi. I grillini rappresentano il primo livello, la scuola elementare, ovvero lo stadio infantile del populismo: autogoverno del popolo, democrazia diretta, come per la nomina del capoclasse; verità è quel che dice la gente, ribattezzata rete. E il rimedio è distribuire soldi a chi non ce li ha, in modo da star bene tutti. Semplice. Ai problemi ci penseremo poi, intanto passiamo gratis panini e bevande, come alla mensa scolastica.

I leghisti si situano a un livello superiore di populismo, che non a caso preferiscono ribattezzare sovranismo: capiscono che bisogna disobbedire agli eurocrati che c’impongono i pagare i debiti senza preoccuparsi di chi sta male, e sforano per investire e abbassare le tasse (flat tax) perché così si muove l’economia e si sta tutti meglio. È una posizione più adulta, si vede che sono alla scuola media, sono più avanti in aritmetica e geometria e pure in grammatica. Non solo: i leghisti capiscono che i problemi non si possono risolvere solo tra noi ma dobbiamo rapportarci al mondo: da una parte crescono i flussi migratori e dobbiamo fermarli se non vogliamo perdere benessere e sicurezza. E dall’altra crescono i sovranisti e i protezionisti e noi dobbiamo inserirci in questa corrente, da Trump a Putin, via Orban, rinegoziando con l’Europa. Ma c’è ancora in loro la tendenza adolescenziale a risolvere tutto con colpi a effetto, rimedi provvisori e locali, gesti d’impatto immediato ma di corto respiro.

Si tratta di superare la scuola dell’obbligo del populismo e passare al terzo grado: studi più impegnativi, classi più selezionate, criteri più rigorosi. E uno sguardo più adulto, da maggiorenne, alla realtà. Se il populismo vuole diventare una proposta seria di governo deve passare dall’istruzione primaria al livello superiore, farsi decisione, selezione, comunità, responsabilità. A fine percorso verrà la sovranità; non all’inizio, altrimenti è solo slogan o mera petizione di principio.

Non credo che i grillini delle elementari e della democrazia diretta potranno passare al liceo senza prima transitare per lo stadio intermedio, fare i conti con la realtà, lo Stato, la nazione, il lavoro e altri fondamentali. È tempo, invece, che i leghisti facciano il salto di qualità, passino a un populismo più adulto, capace di fare e di rappresentarsi. Non mancano tra i leghisti personalità di qualche competenza, gente che sa amministrare o che capisce d’economia; manca però un progetto Italia, un disegno politico, culturale e civile di rifondazione dello Stato, della classe dirigente e della sovranità. Insomma il populismo deve superare il livello elementare e conquistare la maturità se non vuol finire come un progetto puerile e velleitario che fallendo rimette in gioco i marpioni da cui siamo fuggiti. Detto questo, non gufiamo contro il governo per carità di patria, speriamo di sbagliarci sulle previsioni e sappiamo che peggio dei populisti ci sono solo i loro oppositori.

MV, Il Tempo 1 ottobre 2018

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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