Perlasca, il fascista che salvò gli ebrei
L’italiano che salvò più ebrei al tempo del nazismo fu un fascista di nome Giorgio Perlasca. È tempo di ricordarsi di lui, quest’anno sono trent’anni dalla sua morte. La sua azione benefica fu tenuta nascosta per più di quarant’anni; solo alla fine degli anni ottanta, fu riconosciuta la sua opera, fu insignito del premio dei giusti in Israele, fu ricevuto in Quirinale, furono pubblicati libri su di lui e sulla sua impresa. Ma poi tornò nel dimenticatoio.
Perlasca importava bestiame dai paesi dell’Est. Al tempo dell’occupazione nazista in Ungheria – non aveva aderito alla Rsi per fedeltà al Re – si rifugiò presso la legazione della Spagna, a cui chiese asilo. Perlasca, arruolato nelle Camicie nere, era andato volontario in Spagna e aveva combattuto per due anni e mezzo dalla parte dei falangisti e dei franchisti contro i repubblicani e i comunisti. Ma in Ungheria fu internato; riuscì a fuggire con un falso permesso sanitario e nel cambio di regime a Budapest tornò nella sede diplomatica spagnola e ottenne un passaporto spagnolo. La legazione della Spagna era impegnata “in una vasta e meritoria attività in favore degli ebrei” voluta dal governo franchista, ospitando nelle sue case tremila protetti. Perlasca diventò funzionario (volontario, senza retribuzione) e cominciò ad adoperarsi per proteggere gli ebrei, ma presto il capo della Legazione, Sanz Briz, fu trasferito in Svizzera. E Perlasca vedendo ormai naufragare l’impresa di salvare gli ebrei, decise di assumersi lui il compito di proteggerli e farli sfuggire alle deportazioni, fino a spacciarsi per console di Spagna (arrivando a usare il timbro e la sigla del suo predecessore). “Abbiamo imparato a essere bugiardi – disse Perlasca – perché nella diplomazia la verità non si dice mai”. Ma da diplomatici, aggiunse, si deve avere pure coraggio.
Abbiamo letto il dattiloscritto ampio e dettagliato di Giorgio Perlasca inviato nell’immediato dopoguerra al Ministero degli esteri spagnolo che ci ha girato insieme ad altri preziosi documenti suo figlio Franco (1 – 1945, 16.1. lettera salvati, Budapest[2994]). Sono descritte le traversie, il travaglio di quei giorni; gli incontri con ambasciatori e ministri, con i responsabili del partito filonazista e le autorità di polizia, insomma le perorazioni di Perlasca per riuscire a mettere in salvo 5mila ebrei e proteggere 500 bambini ebrei abbandonati perché i loro genitori erano stati deportati. Perlasca descrive nei documenti e nei documentari storie toccanti di ebrei scampati alla deportazione, da lui aiutati. Per esempio due bambini gemelli, sottratti alla deportazione e fatti entrare nell’auto della legazione spagnola, che godeva di extraterritorialità. O la storia di una bambina di undici anni che andò da lui e offrì il suo corpo in cambio della salvezza di sua madre. Perlasca le dette un ceffone; e portò in salvo la madre con la sua bambina disposta a tutto pur di salvarla. Perlasca non scrisse solo lettere di protezione degli ebrei; si occupò delle loro prime necessità, a volte andò a recuperarli in giro, rischiando la deportazione. E contribuì a sventare lo sterminio nel ghetto di Budapest di 60mila ebrei.
Sconfitta la Germania nazista, Perlasca dovette poi superare la diffidenze dei russi che avevano occupato l’Ungheria e sospettavano che lui e i suoi sodali fossero franchi tiratori nazisti. Un suo stretto collaboratore, l’avvocato Zoltan Farkas, che si era adoperato nell’impresa umanitaria, “fu ritrovato con la testa sfracellata”. Alla fine l’opera di Perlasca fu condotta in porto: aveva salvato “con qualunque mezzo la vita di migliaia di persone”.
Ma il ministero degli esteri spagnolo, forse per non alterare la rete dei rapporti internazionali, non riconobbe l’opera umanitaria di Perlasca che pure aveva svolto all’ombra della bandiera spagnola. Perlasca girò quel rapporto al nostro ministero degli esteri , retto allora da Alcide De Gasperi, a cui scrisse una lettera che abbiamo avuto in copia (6 – 13 – 10 1945, 13.10. lettera a de gasperi[2995]). Perlasca sottolineava il salvataggio di migliaia di vite umane, come avrebbero confermato i tanti ebrei salvati, si metteva a disposizione per ogni chiarimento e offriva la sua collaborazione, sottolineando che aveva fatto tutto questo “per conto della mia Patria”.
Ma anche De Gasperi e il suo ministero, per lo stesso imbarazzo, non dettero alcuna risposta, finsero di non averla ricevuta. Così Perlasca con la sua storia entrò in quell’oblio quarantennale, come se nulla fosse mai accaduto. Come gli aveva scritto Sanz Briz:”Non speri niente da nessuno; né il suo Governo né nessun altro riconoscerà i suoi meriti. Si accontenti con la soddisfazione che dà l’aver fatto un’opera di bene, e con l’aver potuto resistere al terribile temporale dal quale tutti fummo vittime innocenti”.
Espulso dai russi, dopo lungo peregrinare, Perlasca era intanto tornato in Italia. La ditta presso cui lavorava lo aveva licenziato, e visse momenti assai difficili on la sua famiglia. Dovette aspettare 40 anni quando alcune ebree da lui salvate lo rintracciarono e resero nota la sua impresa. Fu allora insignito nel 1989 da Israele del riconoscimento di “Giusto tra le nazioni”, gli fu intitolato un albero al museo di Gerusalemme e poi una foresta con diecimila alberi uno per ogni ebrei salvato da lui. E una lapide nel cortile della sinagoga di Budapest. Cossiga volle incontrarlo e lo insignì nel 1991 dell’onorificenza di Grand’Ufficiale; fu approvato pure un vitalizio, che egli rifiutò. Pochi mesi dopo Perlasca morì. Restò la Fondazione Perlasca, curata da suo figlio che dice di lui: “Restò sempre un uomo di destra”. Quel fascista che aveva salvato gli ebrei, dopo quella breve fiammata di riconoscimenti, tornò in un trentennale oblio.
(Panorama, n.16)