La Vera Rivoluzione è fare i Conservatori
Quando tornerà la politica e magari sarà possibile traslocare dal seminterrato del gossip al piano nobile della cultura civica con vista sulla città, sarà benefico riscoprire la categoria più malfamata dell’agire: il coraggio di conservare. (…) Da noi non c’è ingiuria peggiore che dire a qualcuno di essere conservatore. Ci vuole coraggio già a dirsi conservatori, è necessario subito mitigare la definizione: conservatore illuminato, come dire: è malato ma si cura; o anarchico conservatore, per vivacizzare il cadavere.
Eppure avvertiamo la mancanza di conservatori veri e confessi, in politica, in società e perfino in famiglia, e scontiamo quella carenza, pur nominandola diversamente. Una società equilibrata ama conservare e pratica l’innovazione; da noi accade il contrario, si ama e si declama l’innovazione e si pratica poi la conservazione; e non di princìpi ed esperienze vitali, ma l’immobilismo, la stagnazione, il conformismo, la ripetizione.
L’innovazione attiene alla sfera dei mezzi, delle procedure, della tecnica che si evolve, serve per ammodernare e aggiornarsi. La conservazione va amata come si amano le proprie origini, è gratitudine verso chi ci ha preceduto, e fa tesoro dell’esperienza, perché attiene alla sfera dei significati e degli scopi. Chi crede che conservare sia aver paura del futuro e dunque sia una forma di ottusità portata dall’abitudine alla ripetizione, non ha capito che la funzione primaria dell’intelligenza è la capacità di connettere cose, esperienze e idee, cioè stabilire nessi, relazioni di continuità e rapporti con quel che è stato in vista di quel che sarà. Dunque è preminente l’intelligenza di conservare e di mettere a frutto i legami. Se le idee non bastano, pensate alle parole: la logica, che riguarda la ragione, la religione, che riguarda la fede, la tradizione, che riguarda la continuità, e la trasmissione, che riguarda la tecnica, derivano tutte da connettere. Logos, Religio, Tradere e Trasmettere vogliono dire collegare. Conservare è connettere. La tradizione è come internet, una rete che ci collega nel tempo, come internet è una trasmissione che ci collega nello spazio. Rete verticale e rete orizzontale per colmare le distanze. Anche il progresso presuppone una tradizione, perché mette a frutto le esperienze già state per andare oltre: siamo nani sulle spalle di giganti.
Certo. La tradizione non è solo una risorsa o una bussola, è un vincolo, un legame, a volte una catena. Ma non pensate di liberarvi dalle schiavitù liberandovi dalla tradizione. Eric Dodds diceva che abbiamo alle nostre spalle due modelli culturali, la civiltà della vergogna, fondata sull’onore e la civiltà della colpa, fondata sul peccato originale. Due civiltà, pagana e cristiana, fondate sul peso del passato. Oggi il peso si è trasferito sul futuro; dopo la civiltà della vergogna e della colpa venne la civiltà dell’ansia e dell’angoscia. Alla tirannia dei legami abbiamo sostituito la tirannia dei desideri. Non è un progresso e nemmeno un regresso, solo che non ci sono paradisi in terra. Come ben sa il conservatore, realista disincantato anche se innamorato della realtà.
Ma caliamoci nel concreto. Pensate che sarà possibile ad un Paese come il nostro, che ha la sua principale risorsa nei beni artistici e culturali, nei centri storici e nella chiese, tutelare e valorizzare tutto questo patrimonio senza amare il passato, senza una passione conservatrice? Pensate che sarà possibile promuovere tutelare il paesaggio, la natura ma anche l’agricoltura e l’artigianato, la cucina tradizionale e i prodotti etnici se continueremo a vergognarci del passato e della voglia di conservarlo, e non vedremo sorgere dopo i neocon e i teocon, anche gli ecocon, ovvero i conservatori in difesa dell’ambiente, che non perdono il senso della natura e della realtà come gli utopisti dannosi dell’ecologismo ideologico? E ancora: pensate che sia possibile la scuola e l’università se non si considera la loro funzione primaria, di trasmettere nel rapporto tra generazioni le esperienze del sapere, sempre aggiornandolo? Non serve la scuola o l’università che sia imperniata sulla tradizione. Pensate poi che sia possibile in una società di anziani come quella nostra, con l’età media che s’allunga, rispettare la vecchiaia senza riscoprire l’amore per il passato, il valore dell’esperienza, la saggezza dell’età, la dignità senile? Non si può vivere in una società di vecchi esaltando solo la velocità, il nuovo, i ragazzi… È ridicolo, è schizofrenico. E pensate che sia possibile un legame sociale e famigliare se non si riscoprono le comuni origini, la memoria condivisa? Anche il dialogo tra generazioni e tra mondi diversi, con immigrati e stranieri, è possibile solo se fondato sul rispetto per le eredità, ma a partire – come vuole la realtà – da chi ti è più vicino… E così l’amore per i luoghi: l’innovatore ama la variabilità nel tempo: il conservatore ama la varietà dei luoghi. È disumano prescindere dal territorio, perdere il legame con i luoghi. Siamo eredi, ma eredi gravidi. Occorre una cultura conservatrice per trasformare il basic istinct, l’autoconservazione, in una visione della vita, un pensiero ed uno stile.
Chi non sa conservare non sa innovare, anzi chi non conserva non innova. Bisogna avere il coraggio di ambedue, perché innovare e conservare sono i due emisferi della vita, e il loro avvicendarsi è come l’inspirare e l’espirare, la sistole e la diastole… Insieme compongono il senso della vita umana: gli uomini svegli non sanno stare fissi in un luogo, tra abitudini e ripetizioni, ma non perdono il legame con le loro origini, fuggendo in continuazione. Gli dèi stanno, le macchine vanno, gli uomini tornano. I conservatori amano tornare. Auspichiamo, senza farci illusioni, il ritorno di un movimento conservatore; anzi da noi sarebbe una novità quasi assoluta…
Libero, 2009