Borges, la cecità del fato

Cent’anni fa, nel 1923, nasceva sulle vie di Buenos Aires un poeta. Si chiamava Jorges Luis Borges, aveva 24 anni. In quella sua prima raccolta, intitolata Fervore di Buenos Aires, si prefigurava tutta la sua opera successiva, come scrisse lui stesso; lì in quell’edizione frettolosa, la cui copertina era un’incisione realizzata da sua sorella Norah. Le poesie eccedevano le 64 pagine dell’impaginato e perciò furono sacrificate cinque poesie, di cui l’autore non seppe più nulla. Le cinque invisibili poesie sacrificate al costo venale della stampa furono come doni agli dei della letteratura per ingraziarsi la loro benevolenza, come si usava un tempo quando si lanciavano monete nel greto del fiume per guadarlo e raggiungere indenni l’altra sponda.
Il successo dell’opera fu casuale come sa essere il fato: andò nella sede della rivista Nosotros e infilò copie nelle tasche dei cappotti dei redattori appesi all’ingresso. Così lui si fece “una piccola reputazione di poeta”, scrive nell’Abbozzo di autobiografia in Elogio dell’ombra. Fosse uscito d’estate il libro, non avrebbe trovato cappotti appesi a cui affidare la sua sorte…
Borges ha sognato per tutta la vita di non essere una persona ma un libro. Ha sognato che il suo nome fosse solo uno pseudonimo della Biblioteca Universale, o forse un algoritmo, un simbolo cifrato, per accedere al Catalogo della creazione di tutte le opere di tutti i tempi. La vita storica, reale e carnale gli parve priva di significato, irrilevante, un frammento intruso. Il fatto centrale della mia vita, scrisse, è stata l’esistenza delle parole e la possibilità di trasformare le parole in poesia. La vita come pretesto narrativo. Dice Borges citando Omero: “Gli dei tessono disavventure per gli uomini, affinché le generazioni future abbiano qualcosa da cantare”. La vita come mezzo, l’arte come scopo. Di una vita quel che resta è il suo racconto; è il suo lascito migliore, la realtà si fonde con la diceria o con la rappresentazione. Ci sono vite che riescono a diventare inventate, si liberano della realtà, si fanno via via evanescenti fino a farsi favolose. Anche se “tutta la letteratura è autobiografica”, la personalità per Borges non ha consistenza; l’io non esiste, al più confluisce in un Io trascendentale e impersonale. Un promettente Borges degli esordi già scrive al suo “eventuale lettore”: “Se nelle pagine che seguono c’è qualche verso ben riuscito, mi perdoni il lettore la sfrontatezza di averlo composto prima di lui. Tutti siamo la stessa persona; le nostre nullità differiscono così poco, e così tanto influiscono le circostanze sulle anime, che è quasi una casualità che tu sia il leggente e io lo scrivente”. La fama, scrive, è solo un riflesso di sogni dentro il sogno d’uno specchio (Spinoza). Ma lo scrittore non riposa mai, lavora perfino quando sogna.
Ha poco senso, allora, raccontare la vita di Borges: i suoi anni, i suoi incontri, le sue strade di Buenos Aires, la biblioteca, i suoi viaggi, i suoi ritorni destano interesse quando sono già trasfigurati nella sua scrittura. Ancor meno serve approfondire il rapporto col suo tempo; fu impolitico, fuori dalla storia, detestò Peron e il comunismo, fu un conservatore per amore del passato ma non nazionalista. Non gli perdonarono i contatti coi regimi militari del Sudamerica ma sono dettagli che nulla dicono e nulla tolgono alla sua opera letteraria. A volte le biografie sono zavorre: il poeta è la sua opera. Anche il Nobel credette all’inesistenza di Borges e a sua vergogna non gli assegnò mai il premio. Per renderlo omerico e veggente, gli dei impietosi donarono a Borges la disgrazia della cecità. Che non fu totale e congenita ma gli ridusse progressivamente il mondo a ombra e ricordi, che sono poi il lievito e la linfa della poesia. La cecità, disse lui, più che tenebra è solitudine. “Il cieco ti aspetta quasi tutte le notti seduto alla porta. Tace e ascolta. Confuse memorie di cose lontane evoca in silenzio, cose di quando i suoi occhi avevano mattine”. Eccolo, Borges, “un uomo fatto di solitudine, di amore e tempo”. Agnostico, recitava ogni sera il pater noster perché l’aveva promesso a sua madre. Per amor si finse…
La nostalgia anima la sua pagina; a volte è nostalgia del mai accaduto, a volte è nostalgia del presente, come recita il titolo di una sua poesia. La nostalgia pone sempre una distanza, è una cataratta che separa il vivere dal destare. Il vero modo di stare in un posto – disse a Osvaldo Ferrari– è starne lontano e sentirne la nostalgia.
Il vero possesso nasce dalla mancanza, il mito sorge dalla lontananza. “Soltanto ciò che è morto è nostro, soltanto è nostro ciò che abbiamo perduto”. Suo padre morto gli sta sempre accanto, Troia distrutta vive per sempre nell’esametro; nostre sono le donne che ci lasciarono. Non vi sono altri paradisi che i paradisi perduti.
Qual è la magia di Borges? Cogliere la realtà standone dall’altra parte; nel mito, nel sogno, nello specchio, nella finzione, nell’immaginazione e nella letteratura, che è poi la sintesi poetica-erudita di tutto questo. Nella Storia dell’eternità, Borges fa il verso a Platone, a Plotino e a Sant’Agostino, fa la parodia onirica, ludica e fiabesca della filosofia e si burla dell’eternità e del tempo. Il tempo essenziale, per lui, è oziosamente circolare anziché virtuosamente rettilineo; non conosce successione tra passato, presente e futuro, ma simultaneità, ripetizione e scambio delle parti. “Tutto accade per la prima volta, ma in modo eterno”. La finzione è l’unico schermo, l’unica protezione, per ripararsi dal bagliore insostenibile della verità. L’uomo è dentro il fiume del tempo. Siamo il tempo, siamo l’acqua che scorre, siamo il fiume e siamo quel greco (Eraclito) che si guarda nel fiume… “Tutto ci disse addio, tutto svanisce. La memoria non conia più monete” (Sono i fiumi, ne L’oro delle tigri).
Borges crede alla perennità del passato. “Il proposito di abolire il passato – notò in Inquisizioni – si manifestò nel passato e paradossalmente è una della prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile, prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornerà è il progetto di abolire il passato”.
“Siamo già morti quando niente ci tocca, né una parola, né un desiderio, né un ricordo. Io so che non sono morto” (Il Palazzo, ne L’oro delle tigri). Viceversa, come potrebbe morire chi è stato tante primavere e tante foglie, tanti libri e tanti uccelli e tante mattine e notti? C’è poi la morte invocata a cui accediamo “come si entra in una festa”, che ci solleva dal peso di esistere: “Il sollievo che tu e io proveremo nell’istante che precede la morte, quando il destino ci libera dalla triste abitudine di essere qualcosa e dal peso dell’universo (Triade). Immagino di vederlo mentre lo dice con quella smorfia di sorriso e abbandono al fato, più cieco di lui.

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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