Centrodestra, non basta l’aritmetica

Caro Alessandro, mi chiedi di intervenire sulla questione del rinato, rimorto e poi ventilato centrodestra e io proverò a farlo con un tono dolceamaro, il più possibile veritiero.

Cominciamo da alcune amare evidenze.

La prima è che il centro-destra ha avuto grandi possibilità di cambiare l’Italia, con governi di lunga durata, maggioranze ampie in parlamento e alleanze più coese rispetto ai rivali. Il risultato è stato invece assai modesto e poco significativo.

Non ha lasciato tracce anche con governi durati un’intera legislatura. Poi qualcuno potrà dire che rispetto a quel che sta lasciando il centro-sinistra, soprattutto a livello di leggi, o le prime prove disastrose dei grillini a Roma, meglio quel poco che il nulla o il male.

La seconda è che se oggi i sondaggi danno il centrodestra in crescita – e il caso Sicilia con un candidato credibile come Musumeci lo rafforza – non è per merito del centrodestra ma per demerito altrui e per una legge che governa la cosìddetta seconda repubblica sin dalla sua fondazione: a ogni elezione il governo in carica viene bocciato e viene sistematicamente premiata l’opposizione.

È la legge dell’alternanza fondata sui fallimenti alternati. Tendenza esasperata dal voto anti-establishment che cresce in Occidente e sfocia nel populismo antipolitico.

La terza è che gli esempi dati in questi anni dai suoi leader Fini, Bossi e Berlusconi sono stati a dir poco sconfortanti. Tralascio i primi due ormai fuori gioco in modo disonorevole, il primo molto più del secondo, e vengo al terzo, Berlusconi.

In questi anni ha fatto di tutto per deludere e spiazzare i tanti che lo seguivano e non mi riferisco alle disavventure giudiziarie. Dichiarazioni sbagliate, sostegni a governi nefasti, inciuci e doppiezze, segni di bollitura e tentennamenti, cadute “pascaliane” (animalismo politico, revisionismo gay, trans e tardo-femminista) e grotteschi lanci di delfini con revoche successive, dichiarazioni di fedeltà alla Merkel e agli eurocrati, tentativi di riaccreditarsi come il domatore di Salvini e Meloni e l’insabbiatore dei populismi.

Né mi sembra ragionevole pensare che la leadership dell’intero centrodestra possa finire nelle mani di Salvini.

Insomma il centro-destra allo stato attuale avrebbe i numeri per vincere ma non ha un leader riconosciuto da tutti, una classe dirigente adeguata, un programma omogeneo.

È una somma aritmetica ma non politica. Pontida e Fiuggi lo hanno confermato. Anzi, il consenso che riscuotono i singoli partiti rischia di calare in caso d’ibride alleanze: chi vota moderato mal tollera Salvini, chi vota “sovranista” mal tollera Berlusconi.

Non escludo che la possibilità di vincere possa suscitare energie, endorfine, risorse ora insperate. La necessità di accompagnare la politica con forti motivazioni rende condivisibile il tuo discorso circa la necessità di una visione e di un impegno culturale per governare l’Italia con una credibile proposta politica.

Anzi, credo che debba essere quello il punto di partenza e non la questione di chi guiderà questa coalizione.

Sono superati i partiti personali e le monarchie leaderistiche, tramontate col renzismo, è auspicabile un’alleanza che preveda figure con ruoli diversi: un ficcante speaker, un leader che abbia visione strategica e un premier che sappia governare.

Possiamo uscire dal dogma trinitario che vede le tre figure concentrate in una sola.

La questione cruciale dovrebbe essere proprio questa: stavolta provate a partire non da un leader e da una manciata di slogan per la campagna elettorale ma da una motivazione forte e un programma serio, efficace.

E su queste basi va ricercata e selezionata una classe dirigente su criteri di motivazione, qualità e affidabilità e non come si è fatto finora, sulla base della fedeltà servile al Capo, aderenza ai bisogni contingenti e clientelari, capacità di galleggiare, che nella migliore delle ipotesi è la virtù dei sugheri, privi di consistenza.

Per queste ragioni penso che il primo atto per tentare di costruire una linea politica e una proposta di governo sia quello di convocare una specie di dieta, di stati generali, di mobilitazione estesa non solo ai politici ma alla cultura, ai giovani, alle professioni da cui far nascere una piattaforma, un manifesto, una ripartizione di ruoli e di compiti, una prima selezione.

Inutile tentare un Partito Unico forzando le diversità che ci sono e che prima o poi esploderebbero. Meglio puntare su una alleanza che esalti le sue differenze ma trovi anche ragioni non solo elettorali per le concordanze.

Perché la priorità non è vincere a ogni costo, come finora si è creduto, ma vincere per far cosa, in vista di cosa, con quali prospettive (non personali). Mancando questa condizione, preferirei non vedere unito il centro-destra.

Se i fini divergono così vistosamente, se le distanze tra sovranisti e moderati, tra nazional-populisti ed euro-merkeliani, restano incolmabili, meglio non unirsi e lasciare che ognuno faccia la sua battaglia o il suo inciucio.

A me non interessa che il centrodestra vada comunque al governo; ma che ci vada con cognizione di causa. E generi qualcosa di positivo per l’Italia e per gli italiani.

MV, Tempi settembre 2017

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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