Elogio del presepe
Ma voi siete del Partito dell’Albero o del Presepe? C’è un bipolarismo natalizio che cova sotto traccia nel nostro paese anche se è minacciato dalla tendenza finto-filantropica di buttare a mare ambedue perché offenderebbero sensibilità atee e religiose differenti. Ma nella scelta tra i due sono in gioco due visioni della vita e del mondo. Chi preferisce l’Albero ha una visione più laica del Natale e della vita, più nordica, un pochino protestante e calvinista, tendenzialmente più individualista e più incline al regno dei consumi e della tecnica. Chi preferisce il Presepe ha una visione più religiosa del Natale e della vita, più italo-mediterranea, più cattolica, personalista e comunitaria, più incline al regno degli affetti e delle figure.
In fondo l’Albero viene dal nord, ricorda i lapponi e Babbo Natale, anzi Santa Claus, evoca la neve e le montagne; invece il presepe viene da Greccio in Umbria, made in San Francesco, il più italiano dei santi e il più santo degli italiani come disse Nonricordochi; evoca il Sud e l’Oriente, le dune e i datteri. Involontariamente anche il bipolarismo politico italiano assunse le forme di quel bipolarismo natalizio: da una parte c’era la Congregazione dell’Albero, detto Ulivo, con Quercia, Verdi, Margherite & cespugli vari; dall’altra c’era la Congregazione della Capanna, detta Casa delle libertà, dove abbondavano i popolari, i populisti e i popolani. I primi discendevano dall’albero, i secondi dal presepe.
Il presepe è sotto attacco dai cretini di dentro che vogliono abolirlo per non offendere gli stranieri e le carogne di fuori che vogliono farlo saltare in aria lanciandosi sulla grotta e i pastori coi loro cammelli imbottiti d’esplosivo.
Ma torniamo al presepe natalizio. Destò raccapriccio anni fa la confessione di Umberto Eco: da ragazzo, confessò, faceva la Madonna nel presepe vivente del suo paese. Come la Boschi. Ho l’impressione che avesse continuato a farla nel presepe culturale del nostro Paese. Spero che non avesse già la barba all’epoca della Santa Vergine. Ma non lo faceva per devozione o spirito natalizio, ha ammesso; solo per vanità e privilegio, per stare al centro dell’attenzione e dietro le quinte.
Io amo il presepe ma detesto il presepe vivente; capisco quelli che si tramandano da tempo, ma quei festini in maschera sponsorizzati dalla pro loco, mi danno un po’ fastidio. Mi sembrano una caricatura del presepe morente del Medio Oriente dove le grotte sono abitate dai terroristi e Betlemme è un campo di battaglia. I presepi viventi sorgono in tutta Italia in una specie di gara campanilista ma sono concepiti come piccole orge di retorica umanitaria: il presepe è un piccolo congresso delle nazioni unite, i Re Magi sembrano rappresentanti di Amnesty International, i pastori sfilano come in un corteo no global, san Giuseppe è una specie di Gino Strada dell’antichità, la Madonna una hostess multilingue della società multirazziale e il Bambino se è di colore vale il doppio, come i gol in trasferta. Ma se è nato in provetta, con l’utero in affitto, è meglio. Non vi dico gli angeli che sembrano una via di mezzo tra i caschi blu e il gay pride, con quell’alone transessuale, variopinto e spinelloso da paradisi artificiali.
Il presepe diventa solo un pretesto per piazzarci la solita stucchevole menata sulla pace, l’antirazzismo, Buone Parole e Tutti Fratelli, dimenticando il miracolo della Santa natività. Con la curiosa appendice che mentre pensano alla pace nel mondo e in medio oriente, i presepisti di Tagliacozzo litigano per il primato con i concorrenti di Rivisondoli (cito due paesi a caso, per carità). Ovvero predicano la pace nel mondo ma praticano la guerra con i vicini. Concordo coi bambini che nei presepi viventi sono attratti più dal bue, l’asino, le galline e magari il cammello, che dalla sacra famiglia, ridotta a una specie di agenzia filantropico-turistica in costume.
Il presepe che portiamo nel cuore è quello con l’ovatta per la neve, la carta d’imballaggio per le montagne, i laghetti ricavati dagli specchietti e il muschio rubato dai cortili. Altro che gli odierni presepi chiavi in mano, che compri in blocco prefabbricato. Era un piccolo miracolo di edilizia sacra, di urbanistica domestica a sfondo infantile e religioso, dai risultati goffi e commoventi.
Ricordo i personaggi un po’ raccogliticci: i re Magi, per esempio, erano tre ma due appartenevano ad una collezione e il terzo a un’altra molto più bonsai; sicchè il terzo re sembrava un nano intruso e smunto. Poi due arrivavano con il cammello, il terzo a piedi; sarà arrivato con l’autostop o in autobus? Viceversa impressionava Gesù Bambino che era un bambinone più grosso di sua Madre e, quel che più impressionava, perfino del bue e dell’asino. A san Giuseppe si spezzava ogni Natale il bastone ed era sempre in riparazione; si rimediava col fil di ferro. Di Madonne ne avevamo tre, come le Marie del panettone; le altre due erano mescolate tra i pastori ma stavano lì in lista d’attesa; in caso di necessità si rendevano disponibili, come dicono le hostess per le maschere d’ossigeno.
Tra i personaggi c’era un venditore di cocomeri clamorosamente fuori stagione; ma se è per questo i personaggi erano per metà vestiti d’estate e per metà d’inverno. I primi erano giustificati dal luogo (è pur sempre continente africano), i secondi dal tempo (è pur sempre Natale). Nel presepe c’era quasi sempre un infiltrato, un personaggio fuori tempo, magari vestito con abiti borghesi dei nostri giorni, forse un agente del Mossad.
Ricordo il dramma di sospendere in alto la stella cometa, attraverso fili invisibili che tanto invisibili non erano. Più drammatico era piazzare sulla grotta i due angioletti che sistemati assai precariamente cadevano in continuazione provocando stragi di papere e pastori, giustamente protestanti verso i due involontari talebani caduti dal cielo. Era un po’ grottesco il presepe domestico, così raffazzonato. Ma emanava calore umano e davvero sembrava che in quei giorni ad abitare la casa non fossimo solo noi della famiglia.
Ne parlo al passato solo perché mi sembra che il presepe appartenga a un tempo fuori dal tempo, a quell’infanzia mitica e permanente che abita dentro di noi anche quando siamo adulti e vecchi. Ma il presepe a casa mia si fa ancora e i personaggi sono suppergiù gli stessi di una volta. Li conosco da piccolo, uno per uno, pecore incluse. Ma quel che è peggio è che continuiamo la notte di Natale a far nascere il bambino dopo una processione in tutte le stanze. E noi con le candele dietro a cantare Tu scendi dalle stelle.
Sarò cretino, o avrò perlomeno lampi natalizi d’imbecillità, ma quel rito mi piace ancora, mi illumina d’incanto. Quel buio punteggiato dalle candele, quei calpestìo domestico di nonni, padri e figli in corteo come in un albero genealogico dal vivo, quelle voci stonate e vere, quelle stanze di sempre visitate in una luce piccola e speciale, quella famiglia intera che docilmente interrompe il travaglio quotidiano per seguire con dolcissima demenza un Bambino, quegli auguri davanti ad una grotta, la stessa grotta di sempre.
Quella flebile candelina in mano ci riscalda tutto l’anno.
MV, Il Tempo 24 dicembre 2016