Mafie ideologiche e governi impotenti

Ma come è finita la partita tra intellettuali e potere? Trent’anni fa, quando nacque il primo governo di centro-destra, esprimevo così il disagio bilaterale di chi viene definito intellettuale di destra: tra gli intellettuali non ti perdonano di essere di destra, nella destra non ti perdonano di essere intellettuale. E aggiungevo che a sinistra sono faziosi, leggono solo autori di sinistra mentre a destra no, perché non leggono né autori di destra né di sinistra. Trent’anni dopo si legge meno, si pensa meno, ci si confronta meno tra chi pensa in modo diverso, c’è più acidità e più rancore, c’è più intolleranza e chiusura verso chi non entra nel suo recinto. Ha meno senso usare quelle categorie di trent’anni fa; ma quel disagio bilaterale resta in vigore, oggi più di ieri.

Certo, il potere non è il governo, che del potere è solo un’espressione secondaria e una diramazione periferica. Viviamo il tempo delle sovranità bonsai. A un anno e mezzo dall’avvento del governo Meloni, non è mutata l’egemonia culturale nei suoi tratti peggiori. Anche le fabbrichette del consenso di cui dispone chi va al governo si limitano a ossequiare il governo ma poi restano genuflesse come prima al potere culturale vigente, ai suoi precetti, ai suoi paletti e al suo catechismo. Non è cambiato nulla nella mentalità, nei temi e nel racconto dominante. Forse ha ragione il filosofo argentino Miguel Benasayag a sostenere, nel suo ultimo libro, L’epoca dell’intranquillità (tradotto da Vita e Pensiero), che i cambiamenti non partono mai dal potere politico ma raggiungono il potere e la rappresentazione politica solo dopo. La politica ha esaurito la sua spinta propulsiva, non suscita più passioni civili, tantomeno ideali, a sinistra come a destra, e la corruzione ne è uno degli effetti; agita fantocci e surrogati, non entra nella vita reale e nemmeno nella cultura, al più la mima meccanicamente. Nella girandola di governi – di centrodestra o centrosinistra, antipolitici, populisti o tecnocratici – le aspettative di cittadino, di italiano, di uomo di destra sono rimaste parimenti disattese; mutano i governi ma nulla è mutato.

Alla fine chi pensa liberamente si riconosce in Diogene il cinico al cospetto di Alessandro Magno. L’uomo più potente della terra chiese al filosofo pezzente cosa potesse fare per lui. Diogene rispose: Scòstati dal sole. Ossia non farmi ombra, lasciami godere in libertà dei suoi raggi, non ti frapporre tra me e il mondo, la vita, la luce. Traduco nel gergo più confacente alla classe politica: levati dai coglioni. Cent’anni fa Giuseppe Prezzolini, quando andò al governo chi si era formato e abbeverato alle sue riviste e alle sue idee, si dichiarò apota e preferì il solitario, volontario esilio piuttosto che assumere un ruolo di regime. La prova che Diogene (o Prezzolini) avesse ragione la fornì a contrario Niccolò Machiavelli: dedicò il suo capolavoro, Il Principe, al potente del suo tempo, il duca d’Urbino Lorenzo de’ Medici (da non confondere con Lorenzo il Magnifico) e gli donò la sua opera insieme a due cani da caccia. Il Duca Lorenzo apprezzò molto i due segugi più che l’opera; magari non la lesse nemmeno o non la capì. Questo conferma quanto sia sterile e vano il rapporto della cultura col potere, salvo rari momenti. La consolazione del dotto fu che a distanza di secoli quel principe coi suoi due cani non li ricorda più nessuno mentre ancora si legge nel mondo Il Principe di Machiavelli. Meglio dedicare la propria opera e la propria fatica a imprecisati déi piuttosto che a piccoli potenti di passaggio. 

Certo, ci furono eccezioni nei secoli: con Marc’Aurelio o Federico II di Svevia, ad esempio, il rapporto tra potere e cultura fu fertile; Bacone oltre che filosofo fu gran ministro e Gentile da ministro riuscì a realizzare istituti e riforme, smentendo l’idea che il filosofo al potere sia sempre perdente, inefficace o dannoso. Ma gli esempi virtuosi sono rari e considerando il livello e il tenore odierni, anche con le migliori intenzioni l’impresa sarebbe oggi velleitaria. Non si tratta di dare/avere posti, come pensano i più; ma intraprendere sul serio strategie culturali e disegnare fattivi programmi futuri.

Qual è dunque alla fine il rapporto tra cultura e politica? Quasi inesistente o solo cerimoniale; i punti di contatto avvengono quando la cultura smette di essere tale o quando il potere smette di esercitare il comando. Una pausa, un momento di sospensione collega la cultura al potere. Viceversa restano intoccate le piccole cupole del potere culturale nei regni della letteratura, del cinema, delle accademie, dei premi, delle organizzazioni che gestiscono la cultura. Possiamo non chiamarla egemonia, anche perché è eccessivo scomodare Gramsci e il suo disegno culturale; meglio parlare di mafie, o nei casi più blandi di “amichettismo”, ovvero di conventicole, logge di accoliti, amici-mici. Piccole mafie gender-ideologiche che si autopromuovono ma soprattutto si compattano quando si tratta di escludere, porre il veto, ostracizzare gli estranei, i non allineati. Le stesse logiche si ripetono pure in periferia. La settimana scorsa, per esempio, mi è accaduto di essere chiamato in quanto “biografo” di Vico a celebrare il cinquantesimo anniversario di un liceo dedicato a lui, in provincia di Taranto. Ma l’ho fatto in contumacia, presso un altro istituto, perché la dirigente d’istituto del Vico non ci voleva nel suo liceo. Meschine faziosità locali riflettono esempi altolocati di miserabile faziosità, a livello d’istituzioni, grandi media, giurie letterarie. Sono abituato da una vita a veti e divieti. Luca Ricolfi ricordava su La Stampa che più di vent’anni fa mi fu impedito di parlare all’Università di Torino (lo stesso accadde a Pisa, a Firenze, a Genova; e nessun potere culturale, nessun docente deprecò o si dissociò). Cambiano i climi e i governi, ma la situazione non muta. L’intolleranza militante di base, l’epurazione del potere culturale, e la politica che fa spallucce, le volta, ma resta lì, non si scosta nemmeno dal sole…

Si passa la vita tra veti, ostracismi ed esclusioni; e non ti puoi lamentare sennò le anime belle ti accusano pure di vittimismo. Vi lascio immaginare la stanchezza e l’amarezza che si prova a tarda età anche se poi prevale la noncuranza. Ma è andata così e andrà così finché morte non ci separi, quando tutto sarà cancellato. O verrà salvato da imprecisati dei.  

La Verità – 9 aprile 2024

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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