Occidente, decadenza o novazione?

Cos’è l’Occidente, un’espressione geografica, un luogo storico, un orizzonte mentale, una categoria dello spirito? A dir la verità, l’Occidente di cui parliamo da un secolo nacque dalla percezione del suo tramonto. E’ paradossale ma spesso accade che si scoprano le identità, vere o presunte, solo quando sono minacciate o morenti. Per secoli, l’Occidente non fu una visione geo-storica preminente e la sua linea di confine non era a Oriente né in un preciso punto cardinale, ma era tutto ciò che esulava dal cono di luce della civiltà, oltre la quale c’erano i barbari. L’albore dell’Ovest risale al conflitto tra due mondi, greco e persiano; il primo a separare Occidente da Oriente fu Alessandro Magno. Dopo l’Impero romano Occidente ha voluto dire per secoli Cristianità. Appare come sinonimo di civiltà cristiana nel conflitto secolare contro arabi e ottomani, nelle crociate, nelle battaglie campali di Otranto, Lepanto, Vienna. L’Occidente riaffiora poi in veste imperiale nelle imprese coloniali europee.
Ma l’idea di Occidente che usiamo da un secolo nasce in realtà sulle orme di un libro dal titolo grandioso e bugiardo, Tramonto dell’Occidente. Grandioso fu il titolo, e non solo per il successo che ebbe, né solo per il tempismo in cui venne alla luce, dopo la prima guerra mondiale; ma per la visione del mondo, l’impianto storico e drammaturgico, le analogie e i raffronti, la grandiosa morfologia delle civiltà che disegnò il suo autore, Oswald Spengler. Ma fu titolo bugiardo perché l’Occidente dopo la prima guerra mondiale non tramontò; tramontò l’Europa come ombelico del mondo, tramontarono gli imperi centrali, ma non tramontò l’Occidente. Anzi da allora prese corpo quel che fu poi definito il Secolo Americano, consacrato da due guerre e da una pervasiva colonizzazione culturale e commerciale, prima che militare, del pianeta.
Il Novecento è stato il secolo dell’occidentalizzazione del mondo, che poi coincide con l’americanizzazione del globo. L’est sovietico visse l’esperienza del comunismo che Marx aveva concepito per le società occidentali come il compimento di un processo che passa dall’Illuminismo e dalle Rivoluzioni industriale e francese. Poi cade l’Unione Sovietica e l’Occidente sconfina come modello universale di libertà, uguaglianza e democrazia, diritti dell’uomo ma anche tecnica, finanza e mercato globali. Come si può allora parlare di decadenza dell’Occidente davanti al suo sconfinamento globale?
Per definire l’Occidente usiamo con prudenza il riferimento geografico, considerando che il Marocco e il Senegal sono più a occidente dell’Italia e della Grecia, culle dell’Occidente. Ma anche il criterio etnico definisce poco la popolazione occidentale considerando che sono occidentali gli indios, i pellerossa e gli indigeni del Mato Grosso, mentre sono orientali le popolazioni baltiche. In realtà la più pertinente definizione di Occidente è storico-culturale. L’Occidente è il mondo nato dalla polis greca e dal pensiero greco, dall’imperium romano e dalla lex romana, dalla civiltà cristiana e dalla storia moderna. Occidentale è poi il mondo della riforma protestante, delle rivoluzioni politiche, inglese, americana e francese, l’illuminismo e la secolarizzazione che dà luogo alla storia e alla separazione tra religione e politica. E’ occidente il mondo che riconosce l’individuo e i suoi diritti, è il luogo in cui sorge la democrazia, la libertà e l’uguaglianza. Ma tutte le definizioni di Occidente che abbiamo dato, dalle radici ai frutti, combaciano quasi perfettamente con l’identità europea.
Sul piano geopolitico di occidenti ve ne sono almeno tre, intrecciati e distinti: l’America del Nord, l’America latina e l’Europa che ne è la casa madre. Se è per questo, anche l’Oriente in realtà è la somma di più orienti, divisi non solo dalla geografia tra medio-Oriente, oriente settentrionale (il vecchio est russo, con un piede in Europa e uno in Asia) ed estremo-Oriente, ma anche dalla differenza tra un Oriente ortodosso-bizantino, un Oriente islamico e un Oriente induista-buddista, shintoista, a sua volta enormemente diversificato al suo interno. Con la caduta dell’impero sovietico che egemonizzava l’est ma era solo una sua parziale rappresentazione, il vero crinale non è più tra Occidente e Oriente ma tra Nord e Sud del pianeta. Il nord industrializzato, benestante, moderno e il sud sovrappopolato, povero e arretrato. La categoria occidente viene relativizzata da un nuovo contesto di riferimenti, in cui uno statunitense è più vicino come standard di vita a un giapponese che a un latino-americano.
A complicare ulteriormente le cose è venuto il contraccolpo della globalizzazione, il suo girone di ritorno o se si preferisce il passaggio dalla circolazione delle merci alla circolazione delle genti: i massicci flussi migratori.
Per essere più precisi allora diremo che l’Occidente ha smesso di indicare un luogo per indicare invece un tempo, la modernità. L’Occidente è il mondo della modernità. Il topos dell’Occidente è atopos, il non-luogo, per dirla con Marc Augé, che trasforma i suoi abitanti da conterranei in contemporanei, da radicati in nomadi (o navigatori del web). Il tempo diventa la vera casa dell’Occidente, anche nel senso del primato della secolarizzazione rispetto al sacro e all’eterno. Ma la distinzione tra Occidente moderno e Oriente arcaico ha avuto senso fino a che il monopolio della tecnologia e del capitalismo è stato occidentale. Le tigri del sud-est asiatico, la poderosa tecnologia giapponese e la portentosa rivoluzione telematica indiana, per non dire i passi da gigante del mao-capitalismo in Cina, hanno reso obsoleto anche questo confine tecno-temporale. La velocità, il divenire, non è più prerogativa occidentale. E allora?
Si può dire che l’Occidente sconfinando tramonta, ovvero nel momento in cui si compie ovunque, finisce, si risolve nella globalizzazione fluida e nell’uniformità planetaria? Torniamo coi piedi per terra e nella storia, e proviamo a ripartire dalla caduta dell’ultimo muro divisorio tra Oriente e Occidente.

Resta un mistero la caduta del Muro di Berlino, il crollo indolore e simultaneo di un potere cristallizzato da anni e associato a una grande potenza militare.
Resta un mistero che una cortina di ferro si sciolga come burro al sole, senza significative reazioni. Anche i regimi più impopolari e le nomenklature più detestate hanno una schiera di fedelissimi che ingaggiano una lotta finale, tentano un’estrema difesa arroccandosi in una ridotta. A Berlino invece non accadde nulla e così in larga parte dei paesi usciti dal comunismo. Il comunismo si piegò su se stesso, si spense come idea per sopravvivere come apparato e rigenerarsi come potere. Ad est avvenne l’osmosi tra i due mondi.
1- A che serviva quel Muro? A impedire di vedere la realtà. L’impostura originaria del Muro fu nella definizione che ne diede il leader della Germania Est Ulbricht: “barriera protettiva antifascista”, come se il Muro proteggesse la Ddr comunista dall’assalto e le insidie di un fantomatico fascismo occidentale. E non arginasse invece le fughe verso Ovest, che nel giro di pochi anni coinvolsero il venti per cento della popolazione, circa tre milioni di tedeschi orientali. Non era accaduto sotto il nazismo. Prima di ogni teoria o analisi, quel flusso spontaneo certifica il fallimento del comunismo.
2- Il Muro caduto segnò la fine del dramma tedesco. Un dramma cominciato con la sconfitta della Ia guerra mondiale, poi l’avvento del nazismo, la IIa guerra e le sue immani distruzioni, infine lo smembramento e l’oppressione sovietica. La Germania ha sofferto due volte l’orrore del Novecento, e non solo perché fu l’unico paese a patire in pieno il nazismo e il comunismo. Ma anche perché fu il paese più distrutto e martoriato ma privato, dall’orrore della shoa, del diritto di soffrire il suo dramma e piangere i suoi morti.
3- Con il Muro di Berlino cadde anche il Muro del Tempo, per citare il titolo di un libro di Ernst Junger scritto pochi anni prima della sua erezione. Il Muro preservava l’anacronismo tra le due Germanie, che vivevano in epoche diverse; a ovest c’era il tempo della modernità, dei consumi, della libertà individuale e della democrazia. A est il tempo si era invece fermato alla Prussia in versione stalinista, alla Germania nazista e al comunismo, versione regressiva e repressiva della modernità. La caduta del Muro sincronizzò le due Germanie che vivevano in tempi diversi. L’est entrò nel tempo dell’ovest, fu inglobata.
4- Il comunismo fu sconfitto sul suo stesso terreno. Aveva ingaggiato una sfida con l’occidente nel nome del materialismo e dell’ateismo, del progresso e della liberazione, dell’economia e della tecnologia e fu sconfitto dall’occidente sul medesimo piano, da un materialismo ateo più pervasivo e consensuale, da una società più progredita ed emancipata, da una liberazione individuale radicale, da un’economia più efficace e da una tecnologia vincente. Se vogliamo, l’89 fu il rovescio del ’68 e non solo perché si realizzò la primavera di Praga ma perché lo spirito del ’68 corrose la vetusta ingessatura del comunismo.
5- L’epoca uscita dalla caduta del Muro di Berlino fu definita era globale. Con la caduta del Muro finirono le ideologie del ‘900, i blocchi contrapposti, la divisione orizzontale del mondo tra est e ovest, il comunismo e il residuo neofascismo. Altri eventi, come piazza Tienanmen e lo scacco sovietico in Afghanistan, la morte di Khomeini e il crollo di altri regimi comunisti, accelerarono quel processo. La storia cedette il passo alla tecnica, l’ideologia all’economia. Tecnica e mercato sono le ali della globalizzazione.
6- La caduta del Muro provocò due conseguenze opposte: da un verso accelerò la globalizzazione, caddero le frontiere, decaddero gli stati nazionali; dall’altro verso la riunificazione tedesca rianimò le identità territoriali e nazionali, riaccese le etnie e i localismi. La stessa Europa riflette questa ambiguità: da un verso avviene la dis-integrazione delle nazioni come gradino verso la società planetaria; ma dall’altra l’Europa è argine e risposta alla globalizzazione. Anche un muro caduto ha due punti di vista, al di qua e al di là della breccia.
7- La caduta del Muro non promosse solo emancipazione e libertà ma anche primato dei consumi, vittoria dell’individualismo sul legame sociale e collettivo. L’oriente e l’occidente non si unificarono, ma il primo si sciolse nell’altro, si lasciò annettere e colonizzare. L’est fu attratto più dalla liberazione sessuale d’Occidente che dal pluralismo dei partiti, più dalle merci che dal diritto di opinione, più dal denaro che dalla democrazia.
8- Dopo lo spartiacque tra est e ovest sono sorte due nuove frontiere: tra nord e sud del pianeta; e tra Centro e Periferie. Il conflitto con l’Islam rientra nei due scenari. Un tempo si riteneva che il comunismo sarebbe stato l’Islam del XX secolo; poi si sostenne che l’Islam sarebbe il comunismo del XXI secolo. In realtà non spiega il mondo attuale lo schema dello scontro di civiltà tra Occidente e Islam e nemmeno quello tra democrazia e terrorismo; altri soggetti crescono nel mondo (la Cina, l’India, più svariate periferie), l’Africa esplode, l’Islam non è un blocco omogeneo. E l’Occidente è lacerato al suo interno dalla spaccatura tra populismi nazionali ed oligarchie transnazionali.
9- In Italia il crollo del Muro di Berlino produsse la fine del comunismo e l’immediata sostituzione della sua epopea con la celebrazione della rivoluzione francese di cui cadeva nell’89 il bicentenario. Il richiamo alla rivoluzione borghese segnò non solo in Italia la nascita di una sinistra non più proletaria e operaia, ma radical-borghese, neoilluminista ed elitaria, attestata sui biodiritti dell’uomo e sul canone ideologico del politically correct, succube del fantasma che aveva evocato: il partito giacobino, di cui divennero portatori i magistrati e i partiti derivati. La sinistra uscita dal ‘900 comunista tornò al 1789, nella duplice versione light e strong, o liberal e radical.
10- Dopo le due distruzioni, quella benefica del 9/11 di Berlino e quella malefica dell’11/9 di New York, (a numeri invertiti) il mondo si avvia a tornare multipolare, non più dominato da una Sola Superpotenza, gli Usa. I nemici non sono più delimitati da un territorio e da uno stato, ma sono interni, diffusi e virali: è il cortocircuito tecnologico e ambientale, demografico e migratorio.
Il conflitto tra occidente di derivazione cristiana e islam è solo uno dei possibili scontri di civiltà in corso o in fieri, anche se il più drammaticamente vistoso. I mostri che oggi sono gli incubi dell’Occidente sono partoriti in larga parte dagli scellerati errori dell’Occidente compiuti a livello strategico e militare, politico culturale ed economico. A una società molecolare, come quella occidentale, corrisponde un terrorismo molecolare. I muri invisibili sono i più difficili da abbattere. Oggi i muri più opprimenti d’occidente non sono i suoi confini ma la sua libertà assoluta, smisurata e sconfinata che si rovescia in una sartriana prigione senza muri; e i muri impalpabili che inibiscono la dimensione dell’interiorità e della trascendenza. Ovvero l’uomo occidentale a una dimensione: uniforme e puntiforme, individuale e globale, solitario-connesso.

Qui arriviamo al cuore del tema, la decadenza dell’Occidente. In che cosa precisamente consiste? Una prima risposta potrebbe essere nella perdita del passato, del futuro e del soprannaturale, ossia nella perdita delle dimensioni costitutive dell’umano e di ogni civiltà. Che comporta un declino di legami – famigliari, comunitari e sociali – e una perdita dell’orizzonte di aspettative. Un’ulteriore risposta potrebbe essere la perdita di culto, cultura e coltivazione, qui intesa come educazione. Gli indicatori più vistosi del declino sono la denatalità, le nascite superate dai decessi, l’invecchiamento della popolazione. La perdita della dimensione pubblica e storica, politica e ideale e la crescita abnorme della sfera privata, ego-narcisistica, pur nell’orizzonte di un presente globale sempre collegato alla sfera del web. Ma anche il calo della fede e della lettura (sovvertendo la tesi progressista che pronosticava dal calo di fede un aumento di cultura; invece la sconfitta dell’una è pure la sconfitta dell’altra), la perdita del nesso tra diritti e doveri, tra conquiste e sacrifici, tra pulsione e sublimazione. E ancora, la diffusione di un nuovo primitivismo fondato sull’uso abile ma inconsapevole della tecnologia e sul dominio di fattori puramente emotivi, impulsivi, biologici. Infine la rimozione della morte, il rifiuto del limite, la paura di vivere e insieme l’attaccamento assoluto alla vita come fenomeno esclusivamente biologico. Questo quadro, estremamente riassuntivo, descrive la decadenza dell’Occidente.
Qui ci soccorre la vasta critica all’occidentalismo che fiorisce in Occidente ormai da un secolo. Evito di citare la vasta galleria di opere e di autori, limitandomi a citarne due: uno in sintonia col luogo, Genova, in cui insegnò per anni, Michele Federico Sciacca. E l’altro in sintonia con chi scrive, a cui donò come suo ultimo scritto, la prefazione a un testo non a caso intitolato Processo all’Occidente: Augusto Del Noce. Due pensatori di ispirazione cristiana e cattolica, non certo compiacenti verso il terzomondismo o verso l’autodafè occidentale di chi vive l’identità occidentale con vergogna e senso di colpa.

La novazione in Occidente potrà avvenire solo se si supererà lo scompenso tra crescita e visione, il dislivello prometeico tra tecnica e cultura di cui scriveva Gunther Anders. La novazione autentica potrà sorgere solo se si riterrà che la libertà e lo sviluppo tecno-economico non siano i fini supremi dell’agire umano ma due magnifici mezzi, a cui non vogliamo rinunciare, ma che non bastano a denotare la civiltà e la dignità umana; al più denotano quella che Spengler e Mann definivano Zivilisation. La libertà è come l’ossigeno che ci permette di vivere e di respirare; ma l’ossigeno non può dirsi lo scopo e il valore della nostra vita, è il mezzo necessario per vivere. In questa chiave si può confutare l’idea di una superiorità assoluta dell’Occidente ritenendo, ad esempio, che la saggezza orientale di addomesticare il dolore, la morte, il tempo che fugge e la vecchiaia, siano incomparabilmente superiori rispetto all’universo occidentale che ha trovato dei mezzi formidabili per rinviare, mitigare ed eludere questi limiti ma non affrontarli né farsene una ragione. Noi occidentali siamo cresciuti straordinariamente sul piano dei mezzi e infatti le condizioni materiali di vita sono migliori; l’Oriente delle tradizioni invece tenne alle condizioni spirituali e ritenne la vita terrena come un’illusione o una prova, un rodaggio, per l’aldilà. Non so quale delle due possa più propriamente chiamarsi civiltà del benessere.
Dall’Oriente abbiamo lezioni essenziali da imparare. Del resto la stessa globalizzazione, alla lunga, non è solo un fenomeno di estensione nel mondo della tecnica e del mercato; c’è il fenomeno inverso di influenza orientale sull’Occidente, non solo per ragioni demografiche. L’influenza si avverte sul piano degli stili di vita, delle concezioni, dei modi di vestire, la lentezza, la ricerca di senso religioso, il desiderio di assoluto e di abbandono, via via degenerando fino all’uso di droghe, spezie e superstizioni. Va salvaguardata la ricchezza della diversità, il sale delle differenze che è poi la radice più nobile e vera della libertà, e non va perseguito il progetto di un Mondo Uniforme dominato da un pensiero unico con un unico modello. Non è relativismo culturale ma poligonia di civiltà, rifiuto del mondo a una dimensione, rifiuto degli assoluti terrestri e della vita ridotta a tecnica e mercato.
Dal punto di vista culturale il dialogo tra le civiltà non è contrapporre al chador il cellulare ma confrontare le tradizioni. Il primo è dialogo tra sordi perché compara piani diversi; il secondo è confronto autentico, ove confronto apre sia all’ipotesi del colloquio che del conflitto. Ma ogni confronto prevede una soglia, un confine, una porta che si apre o si chiude senza essere abbattuta.

La luce dell’Occidente non coincide con l’elettricità e nemmeno con il crepuscolo della sua civiltà nel nome del suo sconfinamento globale. D’altronde ex oriente lux, la luce dell’Occidente annuncia la sera e dunque il suo congedo. Ma a questo punto il riferimento all’Occidente appare troppo ristretto per definire il senso di una visione del mondo e troppo largo per designare una civiltà da cui si irradiano tradizioni. Allora torniamo a pensare all’Italia, al Mediterraneo, all’Europa come a riferimenti più pregnanti, più autentici e paradossalmente più universali della stessa categoria vaga e declinante di Occidente, esaurita nell’orizzonte temporale. La luce è oltre l’Occidente.Cos’è l’Occidente, un’espressione geografica, un luogo storico, un orizzonte mentale, una categoria dello spirito? A dir la verità, l’Occidente di cui parliamo da un secolo nacque dalla percezione del suo tramonto. E’ paradossale ma spesso accade che si scoprano le identità, vere o presunte, solo quando sono minacciate o morenti. Per secoli, l’Occidente non fu una visione geo-storica preminente e la sua linea di confine non era a Oriente né in un preciso punto cardinale, ma era tutto ciò che esulava dal cono di luce della civiltà, oltre la quale c’erano i barbari. L’albore dell’Ovest risale al conflitto tra due mondi, greco e persiano; il primo a separare Occidente da Oriente fu Alessandro Magno. Dopo l’Impero romano Occidente ha voluto dire per secoli Cristianità. Appare come sinonimo di civiltà cristiana nel conflitto secolare contro arabi e ottomani, nelle crociate, nelle battaglie campali di Otranto, Lepanto, Vienna. L’Occidente riaffiora poi in veste imperiale nelle imprese coloniali europee.
Ma l’idea di Occidente che usiamo da un secolo nasce in realtà sulle orme di un libro dal titolo grandioso e bugiardo, Tramonto dell’Occidente. Grandioso fu il titolo, e non solo per il successo che ebbe, né solo per il tempismo in cui venne alla luce, dopo la prima guerra mondiale; ma per la visione del mondo, l’impianto storico e drammaturgico, le analogie e i raffronti, la grandiosa morfologia delle civiltà che disegnò il suo autore, Oswald Spengler. Ma fu titolo bugiardo perché l’Occidente dopo la prima guerra mondiale non tramontò; tramontò l’Europa come ombelico del mondo, tramontarono gli imperi centrali, ma non tramontò l’Occidente. Anzi da allora prese corpo quel che fu poi definito il Secolo Americano, consacrato da due guerre e da una pervasiva colonizzazione culturale e commerciale, prima che militare, del pianeta.
Il Novecento è stato il secolo dell’occidentalizzazione del mondo, che poi coincide con l’americanizzazione del globo. L’est sovietico visse l’esperienza del comunismo che Marx aveva concepito per le società occidentali come il compimento di un processo che passa dall’Illuminismo e dalle Rivoluzioni industriale e francese. Poi cade l’Unione Sovietica e l’Occidente sconfina come modello universale di libertà, uguaglianza e democrazia, diritti dell’uomo ma anche tecnica, finanza e mercato globali. Come si può allora parlare di decadenza dell’Occidente davanti al suo sconfinamento globale?
Per definire l’Occidente usiamo con prudenza il riferimento geografico, considerando che il Marocco e il Senegal sono più a occidente dell’Italia e della Grecia, culle dell’Occidente. Ma anche il criterio etnico definisce poco la popolazione occidentale considerando che sono occidentali gli indios, i pellerossa e gli indigeni del Mato Grosso, mentre sono orientali le popolazioni baltiche. In realtà la più pertinente definizione di Occidente è storico-culturale. L’Occidente è il mondo nato dalla polis greca e dal pensiero greco, dall’imperium romano e dalla lex romana, dalla civiltà cristiana e dalla storia moderna. Occidentale è poi il mondo della riforma protestante, delle rivoluzioni politiche, inglese, americana e francese, l’illuminismo e la secolarizzazione che dà luogo alla storia e alla separazione tra religione e politica. E’ occidente il mondo che riconosce l’individuo e i suoi diritti, è il luogo in cui sorge la democrazia, la libertà e l’uguaglianza. Ma tutte le definizioni di Occidente che abbiamo dato, dalle radici ai frutti, combaciano quasi perfettamente con l’identità europea.
Sul piano geopolitico di occidenti ve ne sono almeno tre, intrecciati e distinti: l’America del Nord, l’America latina e l’Europa che ne è la casa madre. Se è per questo, anche l’Oriente in realtà è la somma di più orienti, divisi non solo dalla geografia tra medio-Oriente, oriente settentrionale (il vecchio est russo, con un piede in Europa e uno in Asia) ed estremo-Oriente, ma anche dalla differenza tra un Oriente ortodosso-bizantino, un Oriente islamico e un Oriente induista-buddista, shintoista, a sua volta enormemente diversificato al suo interno. Con la caduta dell’impero sovietico che egemonizzava l’est ma era solo una sua parziale rappresentazione, il vero crinale non è più tra Occidente e Oriente ma tra Nord e Sud del pianeta. Il nord industrializzato, benestante, moderno e il sud sovrappopolato, povero e arretrato. La categoria occidente viene relativizzata da un nuovo contesto di riferimenti, in cui uno statunitense è più vicino come standard di vita a un giapponese che a un latino-americano.
A complicare ulteriormente le cose è venuto il contraccolpo della globalizzazione, il suo girone di ritorno o se si preferisce il passaggio dalla circolazione delle merci alla circolazione delle genti: i massicci flussi migratori.
Per essere più precisi allora diremo che l’Occidente ha smesso di indicare un luogo per indicare invece un tempo, la modernità. L’Occidente è il mondo della modernità. Il topos dell’Occidente è atopos, il non-luogo, per dirla con Marc Augé, che trasforma i suoi abitanti da conterranei in contemporanei, da radicati in nomadi (o navigatori del web). Il tempo diventa la vera casa dell’Occidente, anche nel senso del primato della secolarizzazione rispetto al sacro e all’eterno. Ma la distinzione tra Occidente moderno e Oriente arcaico ha avuto senso fino a che il monopolio della tecnologia e del capitalismo è stato occidentale. Le tigri del sud-est asiatico, la poderosa tecnologia giapponese e la portentosa rivoluzione telematica indiana, per non dire i passi da gigante del mao-capitalismo in Cina, hanno reso obsoleto anche questo confine tecno-temporale. La velocità, il divenire, non è più prerogativa occidentale. E allora?
Si può dire che l’Occidente sconfinando tramonta, ovvero nel momento in cui si compie ovunque, finisce, si risolve nella globalizzazione fluida e nell’uniformità planetaria? Torniamo coi piedi per terra e nella storia, e proviamo a ripartire dalla caduta dell’ultimo muro divisorio tra Oriente e Occidente.

Resta un mistero la caduta del Muro di Berlino, il crollo indolore e simultaneo di un potere cristallizzato da anni e associato a una grande potenza militare.
Resta un mistero che una cortina di ferro si sciolga come burro al sole, senza significative reazioni. Anche i regimi più impopolari e le nomenklature più detestate hanno una schiera di fedelissimi che ingaggiano una lotta finale, tentano un’estrema difesa arroccandosi in una ridotta. A Berlino invece non accadde nulla e così in larga parte dei paesi usciti dal comunismo. Il comunismo si piegò su se stesso, si spense come idea per sopravvivere come apparato e rigenerarsi come potere. Ad est avvenne l’osmosi tra i due mondi.
1- A che serviva quel Muro? A impedire di vedere la realtà. L’impostura originaria del Muro fu nella definizione che ne diede il leader della Germania Est Ulbricht: “barriera protettiva antifascista”, come se il Muro proteggesse la Ddr comunista dall’assalto e le insidie di un fantomatico fascismo occidentale. E non arginasse invece le fughe verso Ovest, che nel giro di pochi anni coinvolsero il venti per cento della popolazione, circa tre milioni di tedeschi orientali. Non era accaduto sotto il nazismo. Prima di ogni teoria o analisi, quel flusso spontaneo certifica il fallimento del comunismo.
2- Il Muro caduto segnò la fine del dramma tedesco. Un dramma cominciato con la sconfitta della Ia guerra mondiale, poi l’avvento del nazismo, la IIa guerra e le sue immani distruzioni, infine lo smembramento e l’oppressione sovietica. La Germania ha sofferto due volte l’orrore del Novecento, e non solo perché fu l’unico paese a patire in pieno il nazismo e il comunismo. Ma anche perché fu il paese più distrutto e martoriato ma privato, dall’orrore della shoa, del diritto di soffrire il suo dramma e piangere i suoi morti.
3- Con il Muro di Berlino cadde anche il Muro del Tempo, per citare il titolo di un libro di Ernst Junger scritto pochi anni prima della sua erezione. Il Muro preservava l’anacronismo tra le due Germanie, che vivevano in epoche diverse; a ovest c’era il tempo della modernità, dei consumi, della libertà individuale e della democrazia. A est il tempo si era invece fermato alla Prussia in versione stalinista, alla Germania nazista e al comunismo, versione regressiva e repressiva della modernità. La caduta del Muro sincronizzò le due Germanie che vivevano in tempi diversi. L’est entrò nel tempo dell’ovest, fu inglobata.
4- Il comunismo fu sconfitto sul suo stesso terreno. Aveva ingaggiato una sfida con l’occidente nel nome del materialismo e dell’ateismo, del progresso e della liberazione, dell’economia e della tecnologia e fu sconfitto dall’occidente sul medesimo piano, da un materialismo ateo più pervasivo e consensuale, da una società più progredita ed emancipata, da una liberazione individuale radicale, da un’economia più efficace e da una tecnologia vincente. Se vogliamo, l’89 fu il rovescio del ’68 e non solo perché si realizzò la primavera di Praga ma perché lo spirito del ’68 corrose la vetusta ingessatura del comunismo.
5- L’epoca uscita dalla caduta del Muro di Berlino fu definita era globale. Con la caduta del Muro finirono le ideologie del ‘900, i blocchi contrapposti, la divisione orizzontale del mondo tra est e ovest, il comunismo e il residuo neofascismo. Altri eventi, come piazza Tienanmen e lo scacco sovietico in Afghanistan, la morte di Khomeini e il crollo di altri regimi comunisti, accelerarono quel processo. La storia cedette il passo alla tecnica, l’ideologia all’economia. Tecnica e mercato sono le ali della globalizzazione.
6- La caduta del Muro provocò due conseguenze opposte: da un verso accelerò la globalizzazione, caddero le frontiere, decaddero gli stati nazionali; dall’altro verso la riunificazione tedesca rianimò le identità territoriali e nazionali, riaccese le etnie e i localismi. La stessa Europa riflette questa ambiguità: da un verso avviene la dis-integrazione delle nazioni come gradino verso la società planetaria; ma dall’altra l’Europa è argine e risposta alla globalizzazione. Anche un muro caduto ha due punti di vista, al di qua e al di là della breccia.
7- La caduta del Muro non promosse solo emancipazione e libertà ma anche primato dei consumi, vittoria dell’individualismo sul legame sociale e collettivo. L’oriente e l’occidente non si unificarono, ma il primo si sciolse nell’altro, si lasciò annettere e colonizzare. L’est fu attratto più dalla liberazione sessuale d’Occidente che dal pluralismo dei partiti, più dalle merci che dal diritto di opinione, più dal denaro che dalla democrazia.
8- Dopo lo spartiacque tra est e ovest sono sorte due nuove frontiere: tra nord e sud del pianeta; e tra Centro e Periferie. Il conflitto con l’Islam rientra nei due scenari. Un tempo si riteneva che il comunismo sarebbe stato l’Islam del XX secolo; poi si sostenne che l’Islam sarebbe il comunismo del XXI secolo. In realtà non spiega il mondo attuale lo schema dello scontro di civiltà tra Occidente e Islam e nemmeno quello tra democrazia e terrorismo; altri soggetti crescono nel mondo (la Cina, l’India, più svariate periferie), l’Africa esplode, l’Islam non è un blocco omogeneo. E l’Occidente è lacerato al suo interno dalla spaccatura tra populismi nazionali ed oligarchie transnazionali.
9- In Italia il crollo del Muro di Berlino produsse la fine del comunismo e l’immediata sostituzione della sua epopea con la celebrazione della rivoluzione francese di cui cadeva nell’89 il bicentenario. Il richiamo alla rivoluzione borghese segnò non solo in Italia la nascita di una sinistra non più proletaria e operaia, ma radical-borghese, neoilluminista ed elitaria, attestata sui biodiritti dell’uomo e sul canone ideologico del politically correct, succube del fantasma che aveva evocato: il partito giacobino, di cui divennero portatori i magistrati e i partiti derivati. La sinistra uscita dal ‘900 comunista tornò al 1789, nella duplice versione light e strong, o liberal e radical.
10- Dopo le due distruzioni, quella benefica del 9/11 di Berlino e quella malefica dell’11/9 di New York, (a numeri invertiti) il mondo si avvia a tornare multipolare, non più dominato da una Sola Superpotenza, gli Usa. I nemici non sono più delimitati da un territorio e da uno stato, ma sono interni, diffusi e virali: è il cortocircuito tecnologico e ambientale, demografico e migratorio.
Il conflitto tra occidente di derivazione cristiana e islam è solo uno dei possibili scontri di civiltà in corso o in fieri, anche se il più drammaticamente vistoso. I mostri che oggi sono gli incubi dell’Occidente sono partoriti in larga parte dagli scellerati errori dell’Occidente compiuti a livello strategico e militare, politico culturale ed economico. A una società molecolare, come quella occidentale, corrisponde un terrorismo molecolare. I muri invisibili sono i più difficili da abbattere. Oggi i muri più opprimenti d’occidente non sono i suoi confini ma la sua libertà assoluta, smisurata e sconfinata che si rovescia in una sartriana prigione senza muri; e i muri impalpabili che inibiscono la dimensione dell’interiorità e della trascendenza. Ovvero l’uomo occidentale a una dimensione: uniforme e puntiforme, individuale e globale, solitario-connesso.

Qui arriviamo al cuore del tema, la decadenza dell’Occidente. In che cosa precisamente consiste? Una prima risposta potrebbe essere nella perdita del passato, del futuro e del soprannaturale, ossia nella perdita delle dimensioni costitutive dell’umano e di ogni civiltà. Che comporta un declino di legami – famigliari, comunitari e sociali – e una perdita dell’orizzonte di aspettative. Un’ulteriore risposta potrebbe essere la perdita di culto, cultura e coltivazione, qui intesa come educazione. Gli indicatori più vistosi del declino sono la denatalità, le nascite superate dai decessi, l’invecchiamento della popolazione. La perdita della dimensione pubblica e storica, politica e ideale e la crescita abnorme della sfera privata, ego-narcisistica, pur nell’orizzonte di un presente globale sempre collegato alla sfera del web. Ma anche il calo della fede e della lettura (sovvertendo la tesi progressista che pronosticava dal calo di fede un aumento di cultura; invece la sconfitta dell’una è pure la sconfitta dell’altra), la perdita del nesso tra diritti e doveri, tra conquiste e sacrifici, tra pulsione e sublimazione. E ancora, la diffusione di un nuovo primitivismo fondato sull’uso abile ma inconsapevole della tecnologia e sul dominio di fattori puramente emotivi, impulsivi, biologici. Infine la rimozione della morte, il rifiuto del limite, la paura di vivere e insieme l’attaccamento assoluto alla vita come fenomeno esclusivamente biologico. Questo quadro, estremamente riassuntivo, descrive la decadenza dell’Occidente.
Qui ci soccorre la vasta critica all’occidentalismo che fiorisce in Occidente ormai da un secolo. Evito di citare la vasta galleria di opere e di autori, limitandomi a citarne due: uno in sintonia col luogo, Genova, in cui insegnò per anni, Michele Federico Sciacca. E l’altro in sintonia con chi scrive, a cui donò come suo ultimo scritto, la prefazione a un testo non a caso intitolato Processo all’Occidente: Augusto Del Noce. Due pensatori di ispirazione cristiana e cattolica, non certo compiacenti verso il terzomondismo o verso l’autodafè occidentale di chi vive l’identità occidentale con vergogna e senso di colpa.

La novazione in Occidente potrà avvenire solo se si supererà lo scompenso tra crescita e visione, il dislivello prometeico tra tecnica e cultura di cui scriveva Gunther Anders. La novazione autentica potrà sorgere solo se si riterrà che la libertà e lo sviluppo tecno-economico non siano i fini supremi dell’agire umano ma due magnifici mezzi, a cui non vogliamo rinunciare, ma che non bastano a denotare la civiltà e la dignità umana; al più denotano quella che Spengler e Mann definivano Zivilisation. La libertà è come l’ossigeno che ci permette di vivere e di respirare; ma l’ossigeno non può dirsi lo scopo e il valore della nostra vita, è il mezzo necessario per vivere. In questa chiave si può confutare l’idea di una superiorità assoluta dell’Occidente ritenendo, ad esempio, che la saggezza orientale di addomesticare il dolore, la morte, il tempo che fugge e la vecchiaia, siano incomparabilmente superiori rispetto all’universo occidentale che ha trovato dei mezzi formidabili per rinviare, mitigare ed eludere questi limiti ma non affrontarli né farsene una ragione. Noi occidentali siamo cresciuti straordinariamente sul piano dei mezzi e infatti le condizioni materiali di vita sono migliori; l’Oriente delle tradizioni invece tenne alle condizioni spirituali e ritenne la vita terrena come un’illusione o una prova, un rodaggio, per l’aldilà. Non so quale delle due possa più propriamente chiamarsi civiltà del benessere.
Dall’Oriente abbiamo lezioni essenziali da imparare. Del resto la stessa globalizzazione, alla lunga, non è solo un fenomeno di estensione nel mondo della tecnica e del mercato; c’è il fenomeno inverso di influenza orientale sull’Occidente, non solo per ragioni demografiche. L’influenza si avverte sul piano degli stili di vita, delle concezioni, dei modi di vestire, la lentezza, la ricerca di senso religioso, il desiderio di assoluto e di abbandono, via via degenerando fino all’uso di droghe, spezie e superstizioni. Va salvaguardata la ricchezza della diversità, il sale delle differenze che è poi la radice più nobile e vera della libertà, e non va perseguito il progetto di un Mondo Uniforme dominato da un pensiero unico con un unico modello. Non è relativismo culturale ma poligonia di civiltà, rifiuto del mondo a una dimensione, rifiuto degli assoluti terrestri e della vita ridotta a tecnica e mercato.
Dal punto di vista culturale il dialogo tra le civiltà non è contrapporre al chador il cellulare ma confrontare le tradizioni. Il primo è dialogo tra sordi perché compara piani diversi; il secondo è confronto autentico, ove confronto apre sia all’ipotesi del colloquio che del conflitto. Ma ogni confronto prevede una soglia, un confine, una porta che si apre o si chiude senza essere abbattuta.

La luce dell’Occidente non coincide con l’elettricità e nemmeno con il crepuscolo della sua civiltà nel nome del suo sconfinamento globale. D’altronde ex oriente lux, la luce dell’Occidente annuncia la sera e dunque il suo congedo. Ma a questo punto il riferimento all’Occidente appare troppo ristretto per definire il senso di una visione del mondo e troppo largo per designare una civiltà da cui si irradiano tradizioni. Allora torniamo a pensare all’Italia, al Mediterraneo, all’Europa come a riferimenti più pregnanti, più autentici e paradossalmente più universali della stessa categoria vaga e declinante di Occidente, esaurita nell’orizzonte temporale. La luce è oltre l’Occidente.

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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