Pensiero identitario contro pensiero unico

Pensiero identitario contro pensiero unico

Ci è stato assegnato un tema cruciale ma anche eroico per il combattimento che prefigura: pensiero identitario contro pensiero unico. Dico eroico perché sottintende quasi una battaglia tra giganti in corso, ma di gigante ce n’è uno solo, di battaglia delle idee non c’è traccia, e c’è una radicale asimmetria tra i due contendenti.
Per cominciare, pensiero unico è una dicitura diffusa, che viene spesso usata con significati diversi, se non addirittura opposti, ma che è viziata già in origine perché presuppone l’esistenza di un pensiero. In realtà quel che chiamiamo pensiero unico ha sì il tratto dell’uniformità e dell’intolleranza verso le differenze, ma non quello del pensiero. Anzi uno dei tratti salienti di questo Rullo Compressore è che disprezza il pensiero, lo ritiene irrilevante, inutile, ozioso. Proporrei di chiamarlo Potere che uniforma. Quali sono gli elementi che lo compongono? Ne sottolineo quattro, di diversa provenienza.
1) Il primo elemento è economico-finanziario ed è il liberismo dogmatico, il dominio indiscusso del capitalismo finanziario internazionale e dei suoi agenti, il primato del profitto e il mercatismo come orizzonte globale.
2) Il secondo elemento è il dominio planetario della tecnica, l’avvento della tecnocrazia e dello scientismo, la tecnodipendenza dei soggetti e la riduzione dell’umano a nativo digitale o adottivo digitale.
3) Il terzo elemento è la bioetica, vale a dire la riduzione della natura, della cultura e del costume al primato assoluto della soggettività, dei suoi diritti e delle sue mutazioni.
4) Il quarto e ultimo elemento è invece l’apertura incondizionata ai migranti, l’accoglienza e la cancellazione di ogni confine e di ogni distinzione tra immigrati regolari e clandestini.
Come si può notare si tratta di elementi compositi, i primi due provengono dalla storia del capitalismo e del progresso tecnologico, strettamente intrecciati, con una curiosa contraddizione: il liberismo si fa dirigista, come accadeva nelle economie pianificate del comunismo, detta leggi, parametri e obblighi, riduce il cittadino a debitore. Ovvero il mercato è libero fino a un certo punto; deve in realtà sottostare ad alcuni percorsi obbligati e ad alcune dipendenze, come quelle indotte dal Debito Sovrano, che è poi l’unica sovranità riconosciuta dal sistema in questione. Gli altri due elementi provengono invece da un’altra storia ideologica, quella del radical-progressismo, a cui si aggiunge per l’accoglienza dei migranti l’apporto del filantropismo cristiano.
Per usare le vecchie categorie di un tempo, possiamo dunque dire che il cosiddetto pensiero unico è la confluenza della destra economica e tecnocratica e della sinistra ideologica e moralistica. Il punto di raccordo è un poligono fondato sull’individualismo cosmopolitico, ovvero l’internazionalismo e il soggettivismo ed ha come lati e corollari lo sradicamento, lo snaturamento, la desacralizzazione, il nichilismo. La sinistra ideologica rinuncia alla rivoluzione sociale ed economica, alla lotta di classe e al primato operaio, per esercitare il suo ruolo nella sfera dei costumi, dell’etica, del sesso. E la destra economica lascia che il liberalismo si sposi alla liberazione dalla natura e dai ruoli sessuali, dalle “identità costrette” come si dice. Insieme concorrono a demolire gli argini che la realtà, la natura e la tradizione vi oppone: la comunità, dalla famiglia alla patria, il senso religioso e spirituale… Il Potere che uniforma si avvale di un linguaggio della correttezza, quello che viene definito politically correct che in realtà non è solo politico ma anche etico, sociale, esistenziale. Questo lessico dell’ipocrisia punisce come reati parole e opinioni che contravvengono al canone ideologico e moralistico vigente. E sostituisce la tolleranza repressiva che si condannava con Marcuse nel ’68 con l’intolleranza permissiva, nel senso che tutto è permesso nella società della liberazione, ma per chi è fuori dalla correctness c’è intolleranza e perfino incriminazione.
Il Potere che uniforma, a mio giudizio, non è frutto di chissà quale complotto, non credo alla Cospirazione Universale di Agenti del Male che siedono in una specie di Comando Supremo nascosto ai più ma svelato agli iniziati. Penso piuttosto che si tratti di un processo automatico, in cui i mezzi diventano fini, l’economia e la tecnica si costituiscono in scopi dell’esistenza, e gli uomini regrediscono a strumenti, anche coloro che guidano questo processo. Le procedure prevalgono sui significati. Bisogna funzionare, essere operativi, non critici e tantomeno antagonistici. E’ una reazione a catena, come spiegava bene Carl Schmitt già tanti anni fa. O come per altri versi notava Martin Heidegger: è il dominio dell’Impersonale della Tecnica.
Ora, davanti al Potere che uniforma ed esige conformità di atti, procedure e pensieri, c’è qualcosa come un pensiero che assume coscienza del processo in corso, che si confronta coi suoi presupposti e le sue conseguenze, che sottopone al vaglio della critica e si propone di superarla o quantomeno di fronteggiarla? No, non c’è o c’è in modo scarso, episodico, frammentario, marginale, inadeguato. C’è come una rivolta basica, d’istinto, una ribellione del sentire, che premia movimenti nazional-populistici, ma che difficilmente si eleva sul piano di un pensiero critico o di una compiuta cultura identitaria.  In ambo i versanti non c’è un pensiero all’altezza della crisi, cioè in grado di cogliere e misurarsi con la propria epoca. 
 
Il pensiero identitario non è una corrente, un filone organico, è piuttosto un pensiero sommerso, carsico, che viene da lontano, fino a coincidere con l’idea stessa di Civiltà e di Tradizione, che giunge attraverso mille rivoli di pensiero e che si esprime oggi attraverso isolati pensatori (due sono qui presenti). Il pensiero identitario intreccia cultura e natura, diritti e doveri, mito e storia, sacro e vitale, politica e comunità. Avverte che la civiltà subisce un triplice attacco: dall’alto la colonizzazione global tecno-economica che nasce in un primo tempo come americanizzazione del mondo e che punta alla desertificazione delle differenze, il reset dell’origine e del passato. Dal basso subisce l’invasione di flussi migratori incontrollati, che aliena luoghi, culture, linguaggi e costumi. E ai fianchi subisce l’attacco formidabile del modello commerciale asiatico, cinese in particolare, la competizione che fa saltare la produzione industriale, la qualità dei prodotti, le tutele sociali, le garanzie di lavoro.
Il pensiero identitario rovescia la piramide imposta dal Potere che uniforma, ovvero rimette l’uomo in piedi: la cultura, intesa come visione del mondo, tradizione, religione, orienta la politica; la politica governa la società e guida l’economia, senza gestirla e farsi imprenditore; l’economia reale prevale sulla finanza, ossia le condizioni di vita reale dei popoli prevalgono sugli assetti contabili degli stati e delle imprese.
Ma l’identità non è una specie di idea platonica che dimora fissa nei cieli o un rigido stereotipo a cui si è legati una volta per sempre. L’identità non è unica, non è immutabile e non è eterna. Ma ciascuno vive un contesto di plurime identità, che si modificano nel tempo e nei luoghi, e che possono deperire fino a morire. Le identità sono multiple – personali e comunitarie, politiche e culturali. Non sono reperti arcaici, inerti e retorici. L’identità è un principio basilare in filosofia: è di derivazione presocratica ma poi Aristotele fonderà la logica occidentale sul principio d’identità. Quella logica su cui ancora ci basiamo per capire e distinguere. Ma è anche un concetto usurato nella pratica se ne consideriamo l’uso e l’abuso per rassicurare le proprie pigrizie, non confrontarsi col mondo, chiudersi nel proprio recinto. Personalmente preferisco riferirmi a un principio più fluido e vitale che è la tradizione, dove la continuità implica il mutamento, il passaggio generazionale di padre in figlio, il valore dell’esperienza, e dove il senso della trasmissione non riguarda solo il passato ma anche il futuro. Diciamo che l’identità sta alla tradizione come la montagna sta al mare. O con una formulazione più filosofica, l’identità attiene all’Essere, la tradizione è l’essere in divenire o in una visione metafisica, è il divenire dentro l’essere. Riconoscere l’identità è riconoscere in ogni persona e comunità non solo il suo statuto di vivente, o i suoi diritti individuali, ma un volto, un’anima e una storia ed una persistenza di fondo che lo identifica. Nell’identità risiede la sua dignità. È solo nell’identità che l’uomo, l’umanità, diviene kantianamente da mezzo a scopo.
 
Un’epoca labile e mutante come la nostra, segnata dalla velocità, dalla metamorfosi e dalla rapida deperibilità di tutto – principi, legami e consumi – ha bisogno per contrappeso di punti fermi, di fedeltà che sfidano la precarietà, la labilità e il volgere delle mode. Mai come oggi abbiamo bisogno di riscoprire la gioia delle cose durevoli. Ma il discorso tocca livelli più profondi perché la guerra alle identità è anche una guerra alla natura. È curioso notare che da un verso viviamo nell’epoca dell’ecologismo e del salutismo in cui assume valore tutto ciò che è naturale, biologico, genuino. Ma poi la natura viene degradata al rango maligno se si riferisce alla condizione umana; là il naturale coincide col bestiale, col retrogrado, col rozzo, col razzismo, con l’atroce e reazionario ordine naturale. Il mutante, il transgender, è colui che combatte la sua guerra di liberazione dalla natura intesa come necessità e come destino. Madre Natura è benefica finché si parla di valle degli orti e di diete, diventa malefica se si parla di nascite e di famiglie. Il pensiero identitario è un pensiero del destino, mentre il potere che uniforma si connota per la negazione del destino e per la liberazione da ogni ordine naturale. 
 
E qui torno infine al punto di partenza. Ma esiste davvero una battaglia tra “pensiero unico” e “pensiero identitario”? No, non esiste, anche perché sul piano dei mezzi il primo giganteggia e il secondo è affetto da nanismo. Mentre nel regno dei fini, il gigante è il pensiero identitario, il nano, balbettante, è il “pensiero unico”. E poi, il primo è un processo globale, un apparato impersonale; il secondo invece passa da persone, popoli, comunità, luoghi, storie. E per questa duplice asimmetria che un vero confronto, un vero conflitto, non può al momento accadere. Abitano la stessa terra ma vivono su mondi diversi… 

M.V. – Riflessioni su “Pensiero indentitario e pensiero unico verso un manifesto culturale”, tema del convegno tenutosi giovedì 29 ottobre  a Palazzo Ferrajoli, Roma con relatori Marcello Veneziani, Alain De Benoist e Fabio Torriero

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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