Quel che resta dell’oro di Tokyo
Magari fosse vero, che il trionfo degli atleti italiani a Londra e Tokyo, nel calcio e alle Olimpiadi, sia il segno di una grande Ripresa, anzi della Rinascita d’Italia. Sarebbe bello, ma non c’è alcun nesso logico e pratico tra lo sport e l’azione di governo, tra gli atleti e il sistema Italia. I vincitori sono stati dei leoni, ma non sono dei Draghi. Sono il meglio sportivo d’Italia ma non sono l’Italia. C’è solo un tenue anello simbolico, una specie di sollevamento pesi morali, una sorta d’incoraggiamento allo spirito del Paese.
Però è stato bello. Bello gioire con loro, con le loro squadre, le loro famiglie, i loro allenatori. Bello vedere sventolare così spesso il tricolore, sentire ogni giorno risuonare l’inno di Mameli, per quaranta volte consecutive, come non l’avevamo mai sentito negli ultimi decenni. È stata una magnifica lezione ad personam, degli atleti sugli italiani perché se c’è un esempio, un modello che gli atleti hanno espresso è proprio il contrario dei prototipi correnti nel nostro Paese: vincono i migliori, puntare sulle eccellenze, sacrificarsi per ottenere risultati, la disciplina e la fatica sono alla base del successo, vince chi lo merita, se lo suda e primeggia. Tutto il contrario di quel che pensa un paese fondato sui furbi, i parassiti e le scorciatoie; su chi ce la fa senza meriti e chi non ce la fa perché non ha santi in paradiso, su chi vive di redditi e rendite passive. Il tutto su una vellutata di egualitarismo e uno-vale-uno che lo sport smentisce.
Questa è la bellissima lezione degli atleti, ripetuta mille volte nelle loro interviste: c’è un’Italia migliore in cui proiettarsi, e non è quella che guida il Paese a ogni livello. È una lezione che non passa dal sistema Italia, semmai lo fa saltare; è una lezione che non passa dalla politica, dai governi, dalle classi dirigenti, ma al contrario nasce alla larga da tutto ciò.
L’uso sfacciato dello sport ai fini del consenso, per generare un clima di fiducia verso le istituzioni, è storia antica. Un tempo a sud si diceva: festa, farina e forca. La festa è il grande sedativo-eccitante degli eventi sportivi, oppio dei popoli e galvanizzatore degli stessi; la forca è invece rappresentata dalle forche caudine delle restrizioni e degli obblighi vaccinali e del green pass. E la farina è la promessa del Recovery Plan.
Anche per un governo di tecnici, europeista e poco populista, valgono le antiche, collaudate tecniche di consenso, seduzione e distrazione di massa. Fino a ieri veniva deplorata la strumentalizzazione dello sport del regime fascista per rafforzare il consenso: le grandi vittorie calcistiche ai mondiali del ’34 e del ’38, i trionfi alle Olimpiadi del ’32 e del ’36, le imprese di Tazio Nuvolari o del gigante Primo Carnera, i ciclisti e altri sportivi. Abusi di regime, anche se poi a quei risultati sportivi, per la verità, corrispondeva una mobilitazione sportiva del paese, le adunate del sabato, i littoriali, la partecipazione femminile alle gare e allo sport (una novità per l’epoca), la nascita dell’Isef e altre iniziative per rendere gli italiani un popolo sportivo, non poltrone. Ora nei tg è tornata la propaganda di regime, la retorica della comunicazione istituzionale…
In quella propaganda si è tuffato il presidente del Coni, Malagò, che non ha meriti specifici per i grandi risultati di Tokyo ma ha colto al volo l’occasione per buttarla in politica rilanciando lo ius soli e l’Italia multietnica. Si potrebbero replicare cento buoni argomenti ma resta un dubbio di fondo che mi ha espresso Albino Comelli da Udine: se un Paese può adottare gli atleti che vuole, non si crea la compravendita degli atleti migliori che perdono così il legame con la loro madrepatria per cedere al miglior offerente? Non è colonialismo di ritorno e svendita delle identità locali, mortificazione dei popoli, predominio di una “razza” padrona che si accaparra i più competitivi in un darwinismo economico-sportivo?
C’è chi esulta se vede che qualche atleta italiano premiato è immigrato o figlio d’immigrati, è nero (senza g), perché quel che conta è l’umanità e non l’appartenenza a questo o a quel popolo. Allora perché esultate per un nero vivente in Italia e non per un nero vivente in Inghilterra o in Kenia? Se siete cosmopoliti, non potete cantare fratelli d’Italia senza cantare fratelli d’Inghilterra o di Kenia. È un insensato rigurgito irrazionale di patriottismo, un pasticcio d’impulsi ed inganni. Stabilire un nesso tra le imprese singole di atleti eroici e il paese a cui appartengono è esattamente quel che si rimprovera da sempre allo sciovinismo. Tu singolo individuo vinci una gara, salti più in alto o più a lungo di altri, vai più veloce di altri, e un intero popolo, una patria si esalta per il primato come se fosse frutto collettivo della nazione. Vale nella simbologia dell’ideologia nazionalista; ma voi che siete global, che credete solo all’umanità e alla cittadinanza individuale e cosmopolita, da dove tirate fuori l’orgoglio patriottico? Non dovreste restare indifferenti al tricolore, all’inno nazionale e alle dichiarazioni del tipo “abbiamo vinto più medaglie di sempre”: “abbiamo” chi, cosa, che c’entriamo noi?
Insomma, siamo felici di vedere tanti atleti esultare; le loro facce pulite, i loro corpi e i loro sorrisi, premiati a Tokyo. E ci piacerebbe davvero che quei risultati si riversassero nella vita quotidiana, diventassero incentivo e sprone per la gente a reagire alle difficoltà di ogni giorno. In realtà è un rapporto simbolico, che era corroborato dal mito e dalla credenza in uso nelle Olimpiadi antiche e nelle società pagane che gli atleti baciati dalla Vittoria diventino sul campo semi-dei. Le vittorie sportive e il patriottismo di ritorno che ne deriva, a parte la volatilità, segnano un cortocircuito nel pensiero global uniforme e dominante. Un podio, un canto e una bandiera smontano in un sol colpo il fumo di un’ideologia global egualitaria. Lacrime, sudore, gioia cancellano il resto.
MV, La Verità (10 agosto 2021)