Vita tormentata di un genio frainteso

Quella mattina, il Lunedì dell’Angelo dell’anno di grazia 1730, il professor Giambattista Vico del regio ateneo di Napoli, se ne andava per la strada con la capa dentro i suoi pensieri, più degli altri giorni. Era come se la vita intorno, le voci, il via vai delle botteghe, gli strepiti delle criature non lo toccassero. La sera prima aveva finito di riscrivere il capolavoro della vita sua, La scienza nuova. L’aveva ricominciato la mattina del Natale precedente, l’aveva finito la sera di Pasqua, ed è difficile pensare – conoscendolo – che non l’avesse fatto apposta. Alle nove della sera della domenica di Pasqua aveva chiuso il suo libro intitolato precisamente De’ principj d’una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni. Si era promesso di finirla entro il giorno della Resurrezione e aveva mantenuto l’impegno. Era la sua Divina Commedia: anche la sua opera era un cammino dalla storia al cielo, dalla mente umana alla mente divina, sotto lo sguardo protettivo della Provvidenza.
Per stampare la prima edizione Giambattista si era deciso ad andare dall’ebreo a impegnare la cosa più preziosa che aveva in casa, l’anello di famiglia, con un diamante di cinque grani d’acqua purissima. L’immagine di Vico col cappello in testa, la mantellina sulle spalle e il manoscritto sotto il braccio, che va a bussare alla casa dell’usurai, affacciato alla finestra accanto alla porta, con lo zuccotto in capa e gli occhiali tondi, rimase fissata in una stampa postuma che circolò nella Napoli preunitaria e si fece proverbiale e leggendaria. Ma per stare nelle spese, dovette tagliare la sua opera. Che dolore.
Per questa nuova edizione più ampia e più importante Giambattista aveva chiesto a un bravo artista di sua conoscenza, Domenico Antonio Vaccaro, di realizzare una tavola prima del frontespizio per illustrare il senso dell’opera. Una «dipintura», in cui era racchiuso il succo della Scienza nuova: l’immagine divina della Provvidenza che agisce nel mondo e nel tempo, soccorre l’umanità e guida gli uomini anche a loro insa¬puta. Quell’immagine era l’ecografia dell’opera.
Fu in quell’anno che Giambattista si fece immortalare in un ritratto di Francesco Solimena, pittore celebre a Napoli. In quel ritratto ufficiale, con lo jabot al collo che scende sul petto e la lunga criniera in testa, c’è la fisiognomica di Vico, la corrispondenza dei suoi tratti col suo carattere: il suo volto affilato, il suo naso appuntito, le sue labbra trattenute come da un permanente sdegno o scuorno gentile; il suo sguardo profondo, acuto e triste, di chi legge dentro. Il suo stato d’animo era rivelato dalla sua fronte corrucciata, le pieghe sul nervo trigemino che raccontano i suoi dolori e le sue contrarietà. Un volto scontento ma che scruta lontano, oltre la realtà del momento. Quello era Vico, il genio tormentato gli si leggeva già in fronte.
Non potevano saperlo i suoi concittadini, i suoi contemporanei, ma davanti a loro passava ogni mattina il più grande pensatore della penisola italiana. E non solo tra i viventi della sua epoca ma anche prima, e dopo. Perché a pensarci bene, Vico, mingherlino, solitario, quasi meschino nel suo vivere e apparire, è davvero il più grande pensatore italiano, rispetto ai secoli passati e venturi. Vico grandeggia, anzi primeggia, precorre tempi e pensieri, lascia impronte destinate a fruttare e semina intuizioni che ciberanno pensieri e pensatori del futuro, non solo italiani. O quantomeno li anticipa, intuisce assai prima di loro quel che sosterranno.
Vico è il crocevia del pensiero italiano che parte dalle radici profonde della cultura mediterranea, greca e latina e cristiana; proviene dall’antichissima sapienza degli italici e poi si protende nei secoli a venire, si farà pensiero risorgimentale, storicismo e poi idealismo. Anzi Vico rilegge le origini in chiave italica: sembra suggerirci che prima dei greci ci furono gli italici, così come nella modernità, prima dei francesi, furono gli italiani a generare ponti tra l’antico e il nuovo. E dà una risposta originale, di impronta cattolica, alle filosofie in auge nel resto dell’Europa protestante, a partire dai paesi del nord. I miti, l’importanza del senso storico, i corsi e ricorsi, la fantasia creatrice, la geografia poetica, il vero e il certo, la mano di Dio e il cammino delle civiltà, sono solo alcuni dei favolosi miracoli del suo ingegno e delle sue “discoverte”, benché deriso e disconosciuto dai suoi contemporanei e conterranei.
Del genio Vico aveva non solo le eccellenze ma anche le cadute, le ingenuità, perfino le piccole astuzie e le infime viltà, soprattutto in quelli che più toccano la vita pratica e il mondo comune. Grande nelle grandi cose, piccolo nelle piccole cose. Grande la sua visione del mondo, meschino il suo uso di mondo. Della vita coglieva il senso ma non la pratica. Volava alto ma quando scendeva in basso si lasciava prendere da miserabili piccinerie. Rustica progenie, dicevano gli schizzinosi signori… in realtà Vico rispondeva anche in questo ai requisiti del genio, inclusa la sregolatezza e il candore che sconfina a volte nella stupidità. Questa che ci accingiamo a raccontare è la storia oscura e travagliata di una mente luminosa che visse in un tempo ingrato e seppe rendere grazia alla disgrazia. È il racconto verace di quel che visse e scrisse Giovanbattista Vico nella Napoli a cavallo tra il Seicento e il Settecento. Tante storie, tanti fatti e tante traversie. Vi racconteremo di lui vita, morte e miracoli.

(Panorama, n.40)
(Da: Vico dei miracoli, Vita tormentata del più grande pensatore italiano, Rizzoli, pp.240, 20 euro)

 

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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