Fedor Dostoevskij

Il sottosuolo di Dostoevskij? Una catena di (s)montaggio

C’è qualcosa che spaventa di Fedor Dostoevskij: la certezza che per andare in paradiso devi passare per l’inferno. O, se vogliamo restare sulla Terra, che la vera felicità e la vera gloria vengano solo dalla sofferenza e dal sacrificio.

È un pensiero terribile che non accettiamo, che non possiamo più accettare. E quel rifiuto è forse alle origini dell’irreligione occidentale e della stessa modernità. Di quella dolorosa grandezza Dostoevskij fu profeta, narratore e testimone. La visse sulla propria pelle, la espresse nella sua scrittura.

La vita è bellezza, ma solo nella sofferenza trova un senso: così scrisse Stefan Zweig all’indomani della prima guerra mondiale facendo il ritratto di Dostoevskij. Zweig, scrittore austriaco ebreo morto suicida in Brasile nel 1942, dedicò un trittico di ritratti a Dostoevskij, Dickens e Balzac. Il profilo di Fedor è un po’ ampolloso e ridondante, ma Zweig coglie l’essenza tragica e gloriosa di Dostoevskij, dell’uomo e dell’opera, in perfetta corrispondenza tra vita e scrittura.

E coglie dello scrittore russo la vicinanza con l’abisso, la dimestichezza con i demoni, il rasentare il baratro per risalire in cielo, l’esperienza di Dio come tormento, il male e la perdizione come occasione di salvezza e redenzione, l’oscillazione tra generosità e dissolutezza, la centralità assoluta dell’anima. Kirillov, Satov, Raskol’nikov, Karamazov: i suoi personaggi, per Zweig, vivono nell’agitazione, intorno all’anima si forma il loro corpo, le passioni plasmano le loro figure. Mai carne e spirito sono in armonia.

Se Tolstoj è scrittore visivo, Dostoevskij è scrittore uditivo, nota Zweig: nella sua parola risuona l’anima, non emerge il paesaggio. E anche i volti dei suoi personaggi sono solo espressioni dei loro stati d’animo, mai sono ritratti puramente fisici, esteriori. Anche in questo senso, oggi diremmo psicanalitico, Dostoevskij è davvero lo scrittore del sottosuolo, a cui dedicò celebri Memorie. Il sottosuolo è l’interiorità della terra e la metafora della profondità dell’anima.

Quel cupo senso di oppressione, quella mancanza di cielo, quella vicinanza agli inferi, quel senso della terra concepito a rovescio, non legame concreto con un suolo su cui siamo piantati e camminiamo, ma un carcere, soffitto incombente sulle nostre teste che impedisce la libertà, costringe all’introspezione e toglie il respiro. Sono questi i sintomi di una vita vissuta nel sottosuolo.

Ciò non toglie che il sottosuolo possa col tempo presentarsi un gradevole underground, farsi accessoriato e illuminato, come una metropolitana o una galleria farcita di supermercati e vetrine, come accade oggi a molti passaggi sotterranei.

Ma resta quella sensazione claustrofobica di vivere lontani dal cielo e dalla terra, in prossimità degli inferi, dove non s’incontrano anime vive ma merci, fantasmi e automi. E dove non si cammina liberamente ma si procede su scale mobili, a senso unico, allineati nell’automatismo dei percorsi.

Nel sottosuolo, spiega Dostoevskij, si sopravvive arroccandosi nel proprio io, negandosi a ogni spiraglio di cielo, a ogni legame con la terra, in una cosmopoli sepolta e subreale, vedendo nel prossimo solo un rivale da dominare, da distruggere o semplicemente da cancellare allo sguardo. È nel sottosuolo che abita l’uomo del nichilismo, che ha perduto insieme il cielo e la terra, l’orizzonte trascendente e la realtà vitale.A ben vedere, il sottosuolo è una condizione ben più tragica di quella che delineava il suo contemporaneo Marx, che risolveva l’alienazione rimettendo in piedi quel soggetto che Hegel faceva camminare con la testa.

L’umanità alienata di Dostoevskij non si redime con la rivoluzione o col puro capovolgimento del capo o del potere; perché l’alienazione più vera sorge dalla separazione dell’anima dalla vita. Sono sagaci le critiche di Dostoevskij all’utopia rivoluzionaria e cosmopolita che procede «verso il regno astratto di un’umanità universale che non è mai esistita in nessun luogo, e così facendo taglia ogni legame col popolo». Questa gente «sostanzialmente astratta», scrive in una lettera a Griscenko, esprime «uno sconfinato amore per l’umanità, ma solo se considerata in generale.

Ma poi, se l’umanità s’incarna in un uomo concreto, in una persona, allora essi non sono capaci di tollerarla» anzi provano avversione. E in un’altra lettera a Strachov fustiga il sogno rousseauviano e illuminista «di rifare daccapo il mondo sulla ragione» o sull’idea di una natura astratta, fino a tagliare le teste, perché è la cosa più facile, non potendo cambiarle.

L’amore per l’umanità, scrive Dostoevskij, è inconcepibile senza la simultanea fede nell’immortalità dell’anima. Senza l’immortalità i legami con la terra si spezzano, la perdita di un senso superiore alla vita porta al suicidio o al delitto: «perché dovrei astenermi dallo sgozzare il prossimo, dal rubare, o dal rifugiarmi nel mio guscio?» scrive a Ozmidov. Posizioni che lo scrittore ribadì anche al Congresso della Pace di Ginevra, indetto sotto l’egida massonica e socialista (vi partecipò anche Garibaldi).

Dure le sue critiche al socialismo che recide tutti i legami e sostituisce la carità con la violenza, ma aspre pure le sue critiche all’usura, al potere economico e ai suoi circoli finanziari, alla «barbarie del comfort» e alle élites atee e cosmopolite, «tutti questi liberalucci e progressisti».

A queste figurazioni del nichilismo Dostoevskij oppone l’idea di un risveglio religioso, nazionale e popolare, un vero e proprio risorgimento dell’anima russa. Ma sullo sfondo riemerge la sua convinzione che «come l’oro si forgia col fuoco», così non può esserci resurrezione senza croce.

Quella terribile visione fa di Dostoevskij un profeta tragico, apocalittico, così lontano dall’umanità presente e pure così vicino alla ragione più profonda della sua crisi. Martire di se stesso, Dostoevskij si è crocifisso, ma qui c’è il suo segreto, nota impietosamente Zweig: ha bisogno di Dio e non lo trova.

Tende verso di Lui, smania di folle ardore, urla, cerca di afferrarlo con la logica, lo ama di una passione quasi indecente; ma di Dio a Fedor resta la sete e l’inquietudine. Così si ritrova riverso per terra, come dopo una delle sue crisi epilettiche, ad aspettare invano. E a gridare come Cristo in croce: Signore, perché mi hai abbandonato? Così a Dostoevskij resta l’attesa di Dio e la visione del nulla.

A volte hai la sensazione che la sua inattualità non sia legata a un mondo ormai passato, ma a una condizione umana non ancora rivelata. Profetico Fedor.

MV, Il Giornale 3 giugno 2013


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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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