Leo Longanesi

Il 27 settembre di sessant’anni fa moriva Leo Longanesi. Fu una scomparsa fulminante come le sue battute, un’improvvisata come era d’uso fare. A 52 anni.

Nelle rievocazioni tutti sono soliti pubblicare, e giustamente, un florilegio delle sue folgoranti battute. Se ne avete letto una o due di queste antologie vi sarete divertiti, se ne avete lette dieci non le sopportate più, perché una decina di suoi famosi motti ricorrono in tutte le sue antologie al punto di venire a nausea.

Longanesi che era impaziente e si stancava presto delle ripetizioni, le avrebbe alla fine disconosciute o attribuite ad altri, divertendosi ad accusare il prossimo di falso ideologico (come il sindaco di Milano).

Non ne citerò nessuna per non dispiacere a lui e non dar la nausea a voi. Anzi per un gusto perverso a fine pezzo dedicherò a Longanesi una decina di aforismi a lui.

Non mi soffermerò sul felix Leo dei tempi del fascismo e poi editore, delle sue prime riviste, dell’Italiano e poi di Omnibus, sul suo fascismo, anzi sul suo mussolinismo spinto e cazzeggiante, capace di strizzare un occhio ai fascisti più convinti e un altro agli antifascisti spiritosi (più di trent’anni fa curai un’antologia da L’Italiano).

Fu infedele al fascismo e all’antifascismo, all’Italia e all’America, agli amici, alle riviste e agli stati d’animo. Ma stavolta vi parlerò dell’ultimo Longanesi.

Un conservatore inquieto, che sognava l’ordine e praticava l’instabilità. Due anni prima che morisse, nasceva e moriva precocemente il suo progetto di generare dalla cosiddetta società civile una vera destra in Italia.

Erano i Circoli del Borghese, il settimanale che Leo aveva fondato cinque anni prima e che dovevano dar luogo a un movimento civile prima che politico, conservatore, borghese con tratti un po’ ribelli, nutrito di amor patrio, senso della famiglia e della tradizione, ma anche libertà e anticonformismo.

Cominciò con entusiasmo, Longanesi girò mezza Italia per fondarli. E per trovare sponsor incontrò uomini che contavano, tra cui il Berlusconi dell’epoca, il Comandante Achille Lauro, imprenditore sceso in politica, editore e gran patron di un grande mezzo di comunicazione dell’epoca, le navi.

Una volta pubblicai su un settimanale longanesoide che dirigevo il racconto gustoso di quell’incontro, a firma di un testimone e paraninfo, Toni Savignano, all’epoca collaboratore del Borghese e del Roma di Lauro.

Fu un incontro surreale tra un imprenditore estroso come Lauro, pascià napoletano e monarchico di riflesso e un editore geniale e giornalista sui generis come Longanesi da Bagnacavallo. Si annusarono ma senza successo.

Leo tentò di lanciare in quel di Napoli una destra mezza tradizionale e mezza milanese, con inedite venature bossiano-borboniche. Ma quella destra non vide la luce. Irriducibili furono le destre a un comune denominatore, seppure sparse nella Dc, nelle parrocchie, tra i liberali, i monarchici, i giornali d’opinione. Sfuse.

Rimase la destra solo nel neofascismo, che di destra propriamente non era. Longanesi aveva attraversato il fascismo restando immune dai suoi peggiori vizi; eppure si professò fascista e non risparmiò elogi mussoliniani; mantenne, quando fu con il regime, una divertita libertà che riuscì ad esercitare anche sotto l’antifascismo.

Perché aveva l’impermeabile dell’intelligenza libera e giocosa.

L’idea di una destra per l’Italia, in Longanesi così come in Guareschi, non passava da quello che oggi si chiamerebbe il liberismo.

Era una destra conservatrice e leggermente anarchica la sua, ma con un forte senso dello stato; conservatrice, cattolica e popolare per Guareschi – legata molto al nazionalpopolare, versione rude e casereccia di don Camillo.

Longanesi e Guareschi amavano la destra mediterranea, l’italianità che è comunque cattolica anche quando è pagana, popolare anche quando è borghese, individualista anche quando invoca l’autorevolezza dello Stato, provinciale e strapaesana anche quando è cittadina e nazionale.

Longanesi sognava un conservatorismo nostrano, con le radici nel nostro ragù più che nel brodo calvinista. Amava l’America come ombrello protettivo e come arnese d’uso, non come modello di vita e di pensiero. Ma da noi si desiderava la borghesia d’altri.

Perciò avemmo la borghesia travestita, che si vergogna d’esser tale e poi si fa radical chic: rifiuta il proprio habitat, la propria tradizione, i propri costumi per sentirsi moderna. Già era fragile la borghesia italiana, perché fragile era stato il processo unitario.

La borghesia prima trescò coi rivoluzionari e i radicali e poi si chiuse in un individualismo snob e cosmopolita che rifiuta ogni riferimento nazionale, comunitario, tradizionale.

Così la borghesia italiana sparì con Longanesi e il suo Borghese. Prima fece boom e poi andò via con lui, lasciando un odore di lavanda e di cromatina.

MV, Il Tempo 25 settembre 2017

 

Dieci pensieri per Leo

1) Da sessant’anni Longanesi è morto. Ma i colleghi rimasti in vita erano morti più di lui.

2) Longanesi fu mezzo conservatore, mezzo anarchico, ma soprattutto mezzo. Anche del Novecento visse mezzo secolo d’Italia.

3) Longanesi fu breve, nel parlare, nello scrivere, nella statura e nella vita. Ma per lui non  vale “mens nana in corpore nano”: fu acuto come gli angoli più corti. E spigoloso.

4) In piedi e seduti. Il miracolo fotogenico di Longanesi: tra i longilinei Malaparte e Montanelli riusciva a stare in piedi sembrando di star seduto come loro.

5) Longanesi fondò L’Italiano presentandolo come “settimanale della gente fascista”. Ma non fu settimanale perché diventò presto mensile; non fu della gente perché fu solo per pochi, singoli lettori; e non fu poi fascista, perché allevò spiriti critici e frondisti. 

6) Longanesi fu fascista ironico e all’antica. Ai dissidenti avrebbe dato rosolio di ricino.

7) Mussolini secondo Longanesi fu l’amante e non lo sposo dell’Italia; da qui la passione che suscitò in vita e l’odio bestiale in morte. Dopo, l’Italia ebbe amanti lontani, russi o americani; zie, precettori e governanti, ma non si è più maritata.

8) Col suffragio libero e universale gli italiani votarono in maggioranza partiti non liberali, divisi tra nostalgici del Papa Re, del Re e del Duce, e fautori del comunismo, socialismo e dittatura del proletariato. Usarono la libertà per invocare l’autorità.

9) Il conformista fustigato da Longanesi oscilla tra furbizia e imbecillità. Quando prevale la prima è col potere, quando prevale la seconda viaggia con un regime di ritardo.

10) Longanesi non separò mai la borghesia dal suo habitat nazionale e naturale. Sognò una borghesia cattolica, solare, mediterranea, allegra e tradizionalista. Ma il sognò annegò tra filistei, mariuoli e happy hour.                                                                           

MV

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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