Gabriele D’Annunzio
Quel Vate per tutti e per nessuno
Gabriele D’Annunzio fu il più grandioso nocchiero che traghettò l’Italia dall’Ottocento al Novecento, dalla piccola borghesia di provincia alla nazionalizzazione delle masse, dalla Belle Époque alla guerra, dalla galanteria all’eros, dalla morale all’estetica, dal cavallo al velivolo e al sommergibile, dal culto romantico del genio e dell’eroe al culto moderno del superuomo, ardito trascinatore delle folle.
Restano in lui vivi i tratti del secolo in cui nacque, quel 12 marzo di 150 anni fa, e restano le tracce di quell’Italia provinciale che sognava il passaggio dalla piccola borghesia alla nobiltà imperiale di Roma o di Parigi, dal decoro alla gloria. D’Annunzio trasfigura quelle origini borghesi e ottocentesche nella modernità impetuosa e guerriera.
«In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D’Annunzio e Marinetti», disse il massimo intenditore di rivoluzioni, Vladimir Illich Ulianov, detto Lenin. Era finita da poco la prima guerra mondiale e il leader del comunismo mondiale aveva ricevuto a Mosca una delegazione socialista italiana. Ma nessuno dei tre indicati da Lenin era socialista e tutti e tre potevano definirsi, in varia misura, figli di Nietzsche più che di Marx. Ma gli altri due erano poeti e artisti… Questo spiega perché fu Mussolini a fare quella (mezza) rivoluzione. D’Annunzio fu il più famoso anticipatore del fascismo, il suo «san Giovanni Battista». Ma ne fu anche il più grande dissidente. Non si comprende il fascismo, l’estetizzazione della politica, il rituale fascista, il saluto romano, il culto della bella morte e la retorica militare e cameratesca, senza D’Annunzio. Non si può capire la sintesi tra radicalismo di destra e radicalismo di sinistra, tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo eroico, senza passare per l’opera, i discorsi e la vita di D’Annunzio (che fu parlamentare di destra, poi passò a sinistra – vado verso la vita – e non fu rieletto).
La fusione tra paganesimo e cristianesimo della liturgia fascista è di stampo dannunziano; l’eja eja alalà, il discorso dal balcone, il superuomo affacciato sulle folle, gli arditi, il mito del duce (che D’Annunzio rilanciò nel 1912 in un saggio su Cola di Rienzo). D’Annunzio crea l’habitat in cui prende corpo la mitologia fascista e da cui attinge la sua maggiore fascinazione rispetto alla rivoluzione socialista. Il mito della guerra attraversa tutta l’epoca e permea le intelligenze più vive del tempo; ma D’Annunzio, tra le varie anime letterarie e militari che alimentano il fascismo, è quello che le incarna di più. Stretto è pure il nesso tra fiumanesimo dannunziano e sansepolcrismo fascista; e tracce di D’Annunzio si ritrovano nell’estremo fascismo di Salò, che risente non solo geograficamente della suggestione estetico-eroico-mortuaria del Vittoriale, ormai disabitato del suo capriccioso signore, morto nel ’38. Certo, il fascismo fu anche molto altro, e D’Annunzio fu sicuramente molte altre cose, oltre che precursore del fascismo. Di estetica politica in D’Annunzio parlò Thomas Mann, poi Hofmannsthal che ne rimase incantato; ma sarà Walter Benjamin a cogliere l’estetizzazione della politica poi ereditata dal fascismo. Il suo conterraneo abruzzese Gioacchino Volpe, in un saggio sul D’Annunzio politico e combattente, lo considerò creatore di poesia totale, intesa come «arte eroica al servizio della nazione».
Il rapporto fra D’Annunzio e il fascismo-regime fu controverso, fatto di slanci e prove di amicizia ma anche di netto dissenso, a volte taciuto, a volte filtrato, fino alla tentazione antifascista. Che in alcuni dannunziani prese corpo con l’esperienza breve di Alleanza Nazionale (corsi e ricorsi onomastici). Il rapporto fra D’Annunzio e il regime non fu diverso da quello di un altro esteta e combattente famoso, Ernst Jünger, rispetto al nazismo. Jünger, più di D’Annunzio, non amò gli aspetti volgari e torbidi del nazismo, detestò Hitler e partecipò perfino alla congiura anti-hitleriana; ma la sua fama di precursore e scrittore di guerra, il suo prestigio come eroe di guerra (aveva avuto l’onorificenza militare massima) fermarono Hitler dal proposito di punirlo. O, se vogliamo cambiar tempo, luogo e versante ideologico, lo stesso rapporto di amore e timore tra il Vate e il Duce ci fu tra Castro e Che Guevara, anch’egli come D’Annunzio appellato «il Comandante»: la sua morte prematura fu una salvezza per Castro che diventò amministratore delegato del Mito e si liberò di un ingombrante Compagno scontento. Così accadde con D’Annunzio.
Ma l’ultimo D’Annunzio sostenne il fascismo dopo l’impresa africana e le sanzioni: i copiosi doni alla patria, la retorica della guerra che riaffiorava sulle sue labbra, la missione civilizzatrice italiana in Africa, la polemica con la «perfida Albione», il dono alla Patria della croce militare avuta dalla corona britannica. Nel ’37 accettò di presiedere l’Accademia d’Italia. Non fu solo ipocrita il carteggio cameratesco e a tratti pomposamente cordiale con Mussolini. L’ultimo D’Annunzio non condivise l’alleanza con la Germania, non solo perché estraneo al razzismo e al fanatismo hitleriano, ma anche perché vedeva in Parigi la grande sorella latina e nei teutonici i grandi nemici dell’Italia irredenta. E in questo era perfettamente in sintonia con Mussolini, anch’egli di formazione filofrancese e antitedesco fino alle Sanzioni.
D’Annunzio non fu mai fascista e tantomeno antifascista, ma restò sempre dannunziano, egli amava se stesso e la propria opera sopra ogni cosa, non si può irregimentare in nessun regime ma solo farsi adorare, e non si sente intellettuale organico a nessun partito. La sua vera aspirazione fu elevare la vita al rango di opera d’arte. Il suo dissenso dal regime, notò Volpe, nasceva dalla sua riduzione da protagonista a testimone della Nuova Italia. Nutriva il polemico rimpianto che la rivoluzione italiana avrebbe dovuto farla lui. La sua impresa fiumana fu l’antefatto del Sessantotto: vitalismo, trasgressione e immaginazione al potere furono celebrati là, nella prima rivoluzione estetica. Quei ragazzi dai capelli lunghi di mezzo secolo dopo erano gli inconsapevoli nipoti di quelle teste pelate: D’Annunzio, Marinetti, Mussolini (e Lenin). D’Annunzio visse più vite in una sola e più epoche in una vita. Servì nella religione della parola e della vita, della patria e della bellezza, un solo dio: Imago sui, l’immagine di sé.
(Il Giornale, 11/03/2013)