Ammazzate Alberto Sordi che è dentro di voi
Da quest’anno Alberto Sordi entra di diritto tra le antichità romane, perché si celebra il centenario della sua nascita. Quando morì, il 24 febbraio del 2003, Sordi fu salutato come il prototipo del vero italiano, colui che ha rappresentato i suoi sentimenti e il suo carattere meglio di chiunque altro; “merita di essere conosciuto nelle scuole per il suo valore educativo”, disse in un impeto generoso e commosso il presidente della repubblica del tempo, Carlo Azeglio Ciampi.
Penso invece che si debba dire un’altra cosa: Sordi ha rappresentato al meglio il peggio degli italiani, e dei romani in particolare. È stato uno straordinario interprete di ciò che non dobbiamo essere anche se a volte, purtroppo, siamo. Ha rappresentato l’italiano come ci vedono gli altri quando vogliono disprezzarci. Ha scritto nelle sue parodie l’autobiografia di cui dovremmo vergognarci: spacconi e vigliacchi, servili e cicisbei, mezzi corrotti e mezzi corruttori, traditori e opportunisti, fregnoni e pataccari, voltagabbana e fintoamericani, mammoni e cinici, bambinoni e prepotenti, un po’ furbi e un po’ fessi. Ma soprattutto egoisti, incapaci di pensare oltre il proprio interesse individuale, privato e immediato. L’unica bandiera dell’italiano sordiano è la propria pelle o la propria panza. Sordi ha rappresentato un italiano amabile nella ricreazione, godibile nel cazzeggio, ma insopportabile nella vita seria, nei rapporti con la storia, la tragedia e le istituzioni.
Sul piano politico Sordi è stato qualunquista, ma in fondo ha incarnato l’anima andreottiana del potere, l’anello di congiunzione tra la Roma papalina e la Roma democristiana. E non escludo che oggi possa travestirsi bene da professor Giuseppi Conte, di cui è stato precursore nel trasformismo di alcuni suoi personaggi; anche nel look, quando si dava arie da gagà, con la pochette nel taschino e la prosopopea. Ma lui, perlomeno, recitava, ed era consono al suo tempo.
Tanti anni fa scrissi un editoriale che titolai “Ammazziamo Alberto Sordi”, in cui auspicavo di sopprimere l’Albertosordi che è in noi. Mi raccontò Carlo Verdone che Sordi gli telefonò allarmato, chiedendo chi fosse “questo comunista” che voleva ammazzarlo. Verdone gli spiegò che col comunismo io proprio non c’entravo… Mi riferivo naturalmente ai personaggi interpretati da Sordi e non pensavo minimamente di uccidere, neanche metaforicamente, il grande attore che li aveva rappresentati e tantomeno sconsigliare la visione di tanti godibili suoi film. Ma Sordi lo prese come un attacco personale, una condanna dei suoi personaggi e dei suoi film, un disconoscimento del suo grande talento artistico. Non riusciva a distinguere tra il valore simbolico, etico e pubblico dei suoi personaggi e il valore artistico, il divertimento e il gusto degli spettatori.
Sordi ha interpretato con impareggiabile maestria una sottospecie tipica e diffusa d’italiani, i romani, figli e figliastri di santa romanesca chiesa. È riuscito più di ogni altro a fare la parodia dell’italiota, la caricatura del romano in una girandola di ruoli e di figure memorabili: dal politico al religioso, dal primario ospedaliero al borghese piccolo piccolo, dal marchese del grillo e al popolano, dal pizzardone al tassinaro, mostrandoci tutti i nostri difetti in versione simpatica e spiritosa. Ma fuori dalla scena erano difetti seri, anzi gravi.
L’Italiano di Sordi non ha mai fatto la storia ma l’ha subita, cercando di trarre qualche vantaggio personale o perlomeno tentando di schivarne i costi e le responsabilità. Un italiano amabile a tavola e al bar, al cinema e con gli amici, provolone con le donne, pieno di umanità e di umanissima paura, ma insopportabile nei momenti cruciali della nostra epoca, come la guerra.
In una parola forse un po’ triviale ma adeguata, Sordi ha interpretato alla perfezione l’Italiano paraculo, nel duplice senso corrente dell’espressione: ovvero da un verso animato dalla preoccupazione suprema di pararsi le chiappe a scapito del mondo e dall’altra incline a prendere per i fondelli il prossimo, a “coionarlo” per dirlo in romanesco.
Ma non capiremmo nulla del nostro paese, dei suoi centri storici, della sua arte e della sua cultura, della sua religione e della sua civiltà, se davvero riducessimo l’italiano doc alla sua caricatura sordida. Quel tipo umano descritto da Sordi ha una sua tradizione minore ma lunga; viene dai secoli della Roma papalina, zeppa di preti, suore e prostitute, più contorno di colorita umanità de borgata, capace di navigare tra l’acqua santa e il vino dei castelli, popolata da sudditi rassegnati ad arrabattarsi tra l’eternità e il provvisorio, cultori antichi e pezzenti della magnata, abituati a peccare di nascosto, a dire le bugie per portare a casa la cotica senza pregiudicarsi del tutto l’anima e i pantaloni. Un’Italia anche tenera, ma presa interamente dal particulare. Dio, pasta e famiglia. O in versione egoista e godereccia: Io, pacchia e famiglia.
Peraltro nella vita reale, a Sordi mancava il carattere principale dell’italiano tipo, che ben descrisse Leo Longanesi in una frase celebre: Tengo famiglia. Sordi fu scapolo impenitente e questo contraddiceva il primo luogo comune dell’italiano del suo tempo, attaccato alla famiglia, con prole a strascico e moglie incombente. In questo Sordi fu tutt’altro che arcitaliano e romanesco. Nella vita tradiva pure la sua proverbiale avarizia che mostrava il suo storico attaccamento ai “sordi”, nel senso romanesco dell’espressione. Aridatece i Sordi…
Sordi ci ha fatto ridere e divertire, è stato uno dei più grandi attori del Novecento, ci fu caro e perfino famigliare, mostrò la caricatura dell’Italia romanesca. Ma preferirei un’Italia che non fosse abitata o peggio governata da Albertisordi.
MV, Panorama n.8 (2020)