Eroi veri, presunti e dimenticati

Come oggi 50 anni fa, un ragazzo ungherese che non aveva ancora compiuto diciassette anni, Sandor Bauer, Saniy per i famigliari e gli amici, morì in carcere a Budapest dopo essersi dato fuoco contro l’invasione sovietica in Ungheria e Cecoslovacchia. Il 20 gennaio, a quattro giorni dal gesto di Jan Palach, si era cosparso di benzina e si era dato fuoco sulla scalinata del Museo Nazionale di Budapest. Gravemente ustionato, il giorno prima di morire era stato “interrogato” dalla polizia. Ai tempi della rivolta d’Ungheria aveva solo quattro anni e aveva vissuto lo spettacolo della sua casa rasa al suolo dai carri armati sovietici. Alla sua morte lasciò un biglietto per scusarsi coi suoi genitori per il suo gesto dettato – scrisse – dall’amore verso la patria e il popolo, nella convinzione che il suo corpo carbonizzato servisse al loro riscatto. Un altro Jan Palach dimenticato, nonostante un docufilm realizzato su di lui vent’anni dopo la sua morte e più di recente una lapide nel sul luogo in cui si immolò.

Quei giovani si sacrificarono per amor di patria ma non nel corso di una guerra né appartenendo ad alcun esercito e senza aver ucciso, tentato di uccidere o procurato la morte di alcuno. Un suicidio non può essere un esempio da imitare, ma i loro non furono atti inutili e disperati, perché quei sacrifici servirono a tener accesa una fiaccola e forse contribuirono al riscatto di vent’anni dopo. Dico forse perché onestamente non sappiamo quanto abbiano contato quei gesti nel crollo del potere sovietico e quanto non sia stato la mondializzazione dell’economia, il sommarsi di fattori e influenze, il fallimento del comunismo accartocciato su se stesso. Ed è pure lecito chiedersi se era per questa libertà presente, per questo modo di vivere, che si sono sacrificati.

Una cosa è certa, furono eroi e martiri di patria e libertà, e le due cose non abbiano il diritto di separarle. E lo furono in un senso che ben li differenzia dai cosiddetti martiri di Allah, che si uccidono per uccidere innocenti, non in operazioni di guerra contro eserciti nemici, come i kamikaze giapponesi a cui sono impropriamente accostati.

Ma cosa ci dicono oggi gli eroi di ieri, non quelli di guerra ma quelli a noi più vicini? Se non dobbiamo adottarli come esempi, se non ci sono più regimi che schiacciano il dissenso coi carri armati (al più con le procedure d’infrazione, con le sanzioni, con l’arma del debito, comunque in altri modi incruenti), se la partita del mondo è un’altra ed è individuale e globale, cosa dicono ancora a noi questi ragazzi?

Provengo dalla stessa generazione degli anni cinquanta, e pur vivendo in Italia, in Occidente, condividevo quel clima d’epoca, e lo spirito di quei ragazzi. Rimasi colpito dai loro gesti, credevo anch’io nella lotta politica e nella testimonianza, ritenevo anch’io che si dovesse rischiare per le proprie idee, per la propria patria, per la giustizia e la dignità dei popoli. A quegli anni risalgono i casi di decine di giovani caduti per la loro idea, anche dalle nostre parti. Quando pensiamo agli anni di piombo non dobbiamo ricordare solo la ferocia cupa di quegli anni, che non certo rimpiangiamo, ma è giusto ricordare anche quei ragazzi che furono uccisi solo perché militavano in una idea. E non ho voglia nemmeno di dire quale idea, non faccio distinzioni partigiane. Oggi mi rendo conto di quanto sia impensabile, improponibile, agli occhi della nostra epoca una cosa del genere. E allora torno a chiedere chi sono, dove sono gli eroi di oggi. A giudicare dalla fabbrica dei media, eroi oggi sono al più le vittime, alcune vittime, di attentati, di incidenti, di feroci assassini. Si dedicano luoghi, borse di studio, manifestazioni a ragazzi innocenti, morti in attentati, come Valeria Solarino o Antonio Megalizzi, o uccisi e torturati come Giulio Regeni, eletto a mito e icona in tutta Italia, insieme alla bandiera arcobaleno. La narrazione su di loro è conforme al Canone: erano per la società globale, erano contro i muri, erano per la libertà, scrivevano su testate progressiste…

A loro poi si aggiunge l’attenzione speciale alle vittime vere o presunte delle forze dell’ordine, da Carlo Giuliani a Stefano Cucchi. E non importa cosa fossero e cosa facessero, importa solo che siano vittime delle forze dell’ordine. A destra, in verità, gli ultimi eroi sbandierati furono due soldati italiani prigionieri in India, Latorre e Girone, che non avevano compiuto atti eroici, erano solo incappati in un incidente. Prima di loro c’era stato per i media, nella guerra del Golfo, il caso Cocciolone, che poi tornò a casa. Ebbe tratti di fierezza, invece, l’uccisione in Iraq di Fabrizio Quattrocchi che si tolse il cappuccio dalla testa e volle vedere in faccia la morte e i suoi sicari, per dimostrare “come sa morire un italiano”. Non sono mancati invece tanti eroi civili tra forze dell’ordine, magistrati, cittadini, caduti mentre facevano il loro dovere. Ma di ragazzi caduti per la patria, nel fuoco della protesta ideale, non ce ne sono da decenni. Eppure resta vero che, contrariamente a quel che pensava Bertolt Brecht, ogni popolo ha bisogno di eroi, di martiri e di modelli di riferimento. E se non ne ha di veri, si aggrappa ai surrogati, se non agli eroi negativi.

MV, La Verità 23 gennaio 2019

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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