I grillini tra la padella e la brace
Chissà se quest’anno il centro-destra riuscirà ad andare al governo. Chissà se la sinistra riuscirà, tramite sardine, aiutini e flebo varie, a riprendere conoscenza e consenso. Ma con l’uno e con l’altra dovremo comunque convivere a lungo. Invece, non sarà così con il Movimento 5Stelle, che sembra entrato in una crisi irreversibile, di cui restano ancora incerti i tempi ma non la sorte. I grillini sono entrati in un cul de sac e l’alternativa oggi per loro più credibile è tra la padella e la brace: la padella è farsi logorare con l’alleanza di governo del Pd, continuando però a gestire potere e a ricevere benefici e visibilità, infine suicidandosi nelle braccia di Giuseppi Conte, il loro commissario liquidatore. La brace è interrompere quel rapporto organico con la sinistra, accettare la sfida elettorale, rifluire in una posizione populista, tornare allo stato liquido e indeterminato di movimento d’opposizione radicale, e magari affidarsi all’unico grillino rimasto vergine dall’esperienza di governo. Parlo di lui, di Alessandro Di Battista, nome di battaglia Ale Diba. Un movimento ridotto a meno della metà, in poco tempo, con un’identità ritrovata troppo tardi e al prezzo di troppe scissioni, ma con una sua ragion d’essere.
È lui l’unico grillino uscito a testa alta in questo anno e mezzo di governo double face. È lui a rappresentare la coerenza incontaminata e la purezza intonsa delle origini, la velleità puerile di chi non si è logorato al potere. Dibba vanta rispetto agli altri il privilegio della “rosa che non colsi”, per dirla con Guido Gozzano; o la purezza del rivoluzionario che non va al potere e così non può dimostrare quanto sia velleitario e rovinoso il suo massimalismo come il suo integrismo. Per fare un paragone lusinghiero, che a lui piacerà, Ale è un po’ come Che Guevara, che restò una magnifica promessa e un mito sempreverde, perché si ritirò in tempo dalla disastrosa esperienza di governo e dalla fallimentare direzione della banca a Cuba. E diventò comunque un leader dei sogni, un martire della rivoluzione. Certo, paragonare Fidel Castro a Di Maio e il Che a Dibba è un po’ irriverente, ma rende l’idea.
Comunque il contrario di Di Battista non è Di Maio. Semmai è Conte, che segna il trionfo del cinismo scaltro e la totale integrazione nel sistema di chi ha solo una preoccupazione: restare al potere a ogni prezzo. In Conte c’è anche il suicidio assistito del Movimento 5Stelle nelle braccia della sinistra, e del Pd in particolare. La stessa disapprovazione del premier di formare un partito che si ispira a lui, come aveva vagheggiato quel genio incompreso di Lorenzo Fioramonti, rende trasparente il disegno: lui non vuol fondare nessun partito, non vuol capeggiare alcun movimento, non persegue alcun disegno politico, ha solo un disegno personale di collocamento. E sa che per ottenere qualcosa deve trattare con la sinistra, perché i grillini passano, mentre la sinistra- bene o male – resta. E fa capo a una fetta cospicua di potere, di establishment interno e internazionale.
Il pronunciamento di Dibba in favore dell’espulso Gianluigi Paragone è stato un grido di richiamo e un atto di sfida all’assetto attuale dei grillini, allo stesso Grillo e a Casaleggio, oltre che un avvertimento a Di Maio e naturalmente a quel bollito in brodo che è Roberto Fico. Dibba è il più refrattario all’alleanza con la sinistra, è quello che più ne esprime il disagio.
Il corpo del Movimento sa che Dibba ha ragione, esprime la ragione che motivò la loro discesa in campo. Ma non avendo alcuna storia politica, alcuna idealità da difendere, ma dovendo solo difendere una rendita di posizione che mai avrebbero avuto, preferiscono in gran parte restare accucciati sotto l’albero del governo. Sono penosi i grillini telecomandati che come foche ammaestrate ripetono ogni giorno nei tg, e soprattutto nel loro tg1 Conte-Casalino, la filastrocca che è loro stata impartita, da mandare a memoria: circa gli sgravi, gli asili, i propositi del governo. Sciami di statisti pescati a strascico dalla strada, statisti scappati di casa, che ripetono a pappagallo la lezioncina impartita dalla piattaforma. Il movimento, ha ragione Paragone, è oggi il nulla, una mucillagine che non ha capo né coda, senz’arte né parte, ridotto a meno della metà di un anno fa, un pupazzo nelle mani di un buffone, tra i numeri sempre più imbarazzanti del comico genovese e le grottesche performance tira-a-campare di Luigino Di Maio. Vanamente, Giggino cerca di compattare il movimento additato un Nemico da colpire; ogni problema non trova mai una soluzione ma un capro espiatorio: bisogna punire ora l’Ilva, ora i vertici della Banca popolare di Bari, ora l’Alitalia, ora la Società autostrade, ora i Grandi Evasori. Ma la punizione non risolve nulla; si potranno e magari si dovranno punire i colpevoli, ma la situazione non cambia. Il lavoro, i soldi, le opere, le aziende, l’ambiente, non ce le restituisce la punizione di questo o di quello.
Quel che dobbiamo aspettarci dall’anno neonato è che si porti via nel nulla il Partito del Nulla, venuto dal Nulla, fondato sul nulla, guidato dal Nulla. Poi, magari potrà trovare un senso la sfida tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, tra sovranisti e italofobi globish.
MV, La Verità 6 gennaio 2020