Il dito di Giorgia nell’occhio di Mattarella

Ma davvero il premierato è un pericolo mortale per la libertà e la democrazia, e segna la svolta autoritaria e la conferma del cripto-fascismo del governo Meloni? Capisco le critiche nel merito della legge, capisco i dissensi e le riserve critiche sul suo funzionamento, capisco le divergenze di chi preferisce una democrazia delegata; capisco la preoccupazione per il pacchetto intero delle riforme istituzionali e capisco pure la considerazione che non sia il toccasana per il nostro Paese. Argomenti condivisibili o meno, ma tutti legittimi e plausibili. Ma quando mai il premierato mette in pericolo la libertà e la democrazia ed è il segno di una svolta autoritaria o addirittura di un fascismo travestito o trans (dunque in sintonia col nostro tempo)?

Per cominciare, cos’è il premierato? Non è un monstrum ma una forma di semi-presidenzialismo, analogo e simmetrico a quello vigente in Francia. Prevede cioè la diarchia, ossia che ci siano due figure istituzionali preminenti, ma distinte: il presidente della repubblica e il presidente del consiglio. A differenza del presidenzialismo all’americana che le unifica in una sola figura di capo del governo e capo dello stato. 

La differenza tra gli Stati Uniti e le nazioni europee ha una spiegazione e una matrice storica: gli Stati Uniti sono nati come una repubblica, le nazioni europee, invece, sono state un tempo delle monarchie, e alcune lo sono ancora; e dunque hanno sempre avuto due figure, un primo ministro e un sovrano. Da quando diventarono monarchie costituzionali, il re – per dirla con gli inglesi- regna ma non governa, ha un ruolo importante ma soprattutto simbolico, di guida della nazione; ma a capo dell’esecutivo c’è un premier. Col semi-presidenzialismo uno dei due presidenti viene eletto direttamente dal popolo. In Francia è eletto il capo dello Stato, da noi con la riforma che vorrebbe realizzare la Meloni, sarebbe il capo del governo. Mi sembra che ciò si inquadri perfettamente nell’equilibrio istituzionale e nella divisione dei poteri.

Le critiche al modello vengono in realtà calate dai nemici della riforma nella situazione contingente e vengono così tradotte: è un attentato ai poteri di Mattarella, è un potere accresciuto nelle mani della Meloni. Vergogna, paura, fascismo fascismo… e ridaje alalà.

Ora, non si possono pensare le riforme in chiave strettamente sartoriale, su misura per punire qualcuno e per favorire qualche altro già in carica. Non dimentichiamo che la Meloni ha vinto le elezioni col presente sistema elettorale. E non dimentichiamo che se vogliamo parlare di anomalia e strappo col passato, l’anomalia più stridente semmai è la trasformazione della presidenza della repubblica in una specie di monarchia, col doppio mandato a Mattarella. Non dimentichiamo che la durata del mandato quirinalizio già di per sé è lunga, di ben sette anni, anche per escludere conferme; farla diventare un quattordicennio configura una situazione di potere anomalo per una democrazia. E se pensiamo che quel signore da tanti anni fa il bello e il cattivo tempo con i governi, regna ma non governa come dovrebbe sulla magistratura, è ogni giorno incensato su tutti i media e fa la sua predica quotidiana; nomina un suo partito a lui devoto, i senatori a vita, ne sostiene un altro da cui proviene, con cui coincidono sempre – ma guarda la combinazione – le posizioni che assume, ci rendiamo conto che se c’è odore di crazia senza demos, di potere prolungato, ampio ed eccessivo, quell’odore oggi viene più dal Quirinale che da Palazzo Chigi.

Ma le riforme non dovrebbero essere pensate per giovare o nuocere ai presenti e tradurre il premierato come uno sgarro personale a Mattarella; quella sì è una visione personalistica del potere.

Di riffa o di raffa, il premierato dovrebbe servire a due cose: a garantire un’investitura diretta e fiduciaria del popolo sovrano di chi ci governa e consentire governi di legislatura cioè più stabili e autorevoli, al riparo dai giochini parlamentari, da faide, ricatti e lacerazioni. Naturalmente non si possono escludere “impeachment” di vario tipo, resta la cappa dell’unione europea e della Nato sulla sua testa, la minaccia del default e resta l’incognita della magistratura con le sue pesanti interferenze sull’azione dei governi. Però, tutto sommato, meglio un governo eletto direttamente dal popolo che uno appeso alle volubili manovre parlamentari. Anche perché da svariati anni noi votiamo con una forte polarizzazione personale, e con una specie di premierato implicito, perché non si ebbe il coraggio di portare a coerenza quella riforma, che era voluta da gran parte degli italiani. Non dobbiamo dimenticare che a questa situazione di semi-premierato, con l’indicazione del premier sulla lista, ci siamo arrivati col consenso trasversale delle maggiori forze politiche, da destra a sinistra passando per il centro.

Il presidenzialismo è stato per mezzo secolo un tema di largo consenso popolare; promosso prima da figure come Pacciardi, Sogno o i democristiani di gruppo ’70, tra cui Segni; sposata poi da Craxi e sul piano politologico da figure come Gianfranco Miglio, è stato un cavallo storico di battaglia della destra nazionale, dai tempi di Almirante in poi. E per un momento fu sposata anche dalla sinistra, all’epoca di d’Alema.

Poi, col tempo, si è sopita; oggi gode di un freddo consenso nella popolazione. Ma nel frattempo cosa è cambiato? Ci sono state due cose. La prima è che il presidenzialismo era concepito in origine per frenare lo strapotere dei partiti, e dunque era un antidoto alla partitocrazia. Oggi i partiti son esangui, con scarsa identità, ruotano intorno ai leader (partiti personali), sono senza radicamento territoriale e culturale. Al loro posto c’è il Capo, i Capetti (o Cacicchi regionali) e le Lobbies. 

La seconda cosa è il restringersi della sovranità politica e nazionale a vantaggio di direttive, poteri, decisioni sovranazionali, non solo scaturite dall’Unione Europea.

Dunque, oggi il premierato o semi-presidenzialismo non serve per tenere a bada i partiti, ma al contrario per tentare di ridare forza e prestigio alla politica, che è la cenerentola dei poteri forti, schiacciata da élite non elette ma assai potenti e transnazionali che decidono sulla sorte dei popoli. Il premierato vuol essere un tentativo di ripristinare la sovranità politica attraverso la sovranità nazionale e popolare; tentativo difficile, con scarse possibilità di successo, perché il contesto è ostile, ma legittimo, e in fondo da incoraggiare nel nome della libertà e della democrazia. Poi si può discutere nel merito di questa legge, evidenziarne gli errori, le lacune e le debolezze. Ma senza confondere il dito con la luna, e ridurre il tutto al dito della Meloni nell’occhio di Mattarella. 

La Verità – 22 maggio 2024

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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