Il paradosso della guerra ai fanatici
Il paradosso della guerra ai fanatici
C’è un tragico paradosso nella sacrosanta reazione dell’Occidente alle feroci stragi dell’Isis. Dichiarando guerra ai terroristi fa esattamente quel che loro vogliono e minacciando di ucciderli esaudisce la loro massima aspirazione, morire nella guerra santa e finire diritti nel paradiso di Allah. Per ogni “martire” giustiziato altri dieci invasati s’iscrivono alla lista d’attesa. Al paradosso della guerra che rafforza anziché debellare il nemico, si aggiunge l’asimmetria di metodi e principi. L’Europa annuncia la guerra ai boia, e almeno sulla carta, resta nell’ambito della giustizia che fa pagare ai colpevoli e solo a loro, i crimini commessi. I terroristi no, colpiscono obbiettivi simbolici e universali, massacrano per categorie, per fedi e per nazionalità, usano la vita di inermi occidentali per lanciare i loro messaggi, perché loro sono in guerra col mondo e non con singoli o gruppi. Questa duplice disparità rende la ferocia senza alcun limite e oltre ogni regola.
Ma quale sarebbe il rimedio, il dialogo coi terroristi deliranti, la via diplomatica con i carnefici? No, il problema è saper effettuare interventi militari mirati, con chirurgica precisione, e allargare la forbice tra fanatici e no: più duri con i primi, più dialoganti con i secondi. Ma è necessario che alla necessità di vendicare le vittime e punire i responsabili, si unisca la percezione di difendere non solo i diritti umani e la potenza degli Stati, ma la civiltà. Chi uccide in nome di Dio è due volte assassino.