La folle missione di insegnare l’Italia

Ma si può davvero insegnare l’Italia e si può farlo ancora?
Ho letto con spirito di condivisione, un filo di tenerezza e un groppo di disincanto in gola un libretto di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla dedicato alla temeraria impresa. Insegnare l’Italia è il titolo, e senza il mio interrogativo. Il sottotitolo ne spiega l’ambito: una proposta per la scuola dell’obbligo (edito da Scholé, Morcelliana).
Partiamo non dico dal bicchiere mezzo pieno ma dal dito d’acqua che s’intravede. Uno scritto di questo genere viene pubblicato ora perché c’è un governo guidato e motivato dal tema dell’italianità, dell’identità nazionale, dell’amor patrio. Difficilmente sarebbe stato concepito con un governo di altro tipo, tecnico, grillino, sinistrese. Lode al momento propizio (kairos, direbbero i colti). Il testo è costituito da due capitoli più generali di Galli della Loggia e due più specifici di Perla, studiosa di pedagogia.
L’intenzione è lodevole, il contenuto è condivisibile. Poi però quando caliamo “la Repubblica di Platone nella feccia di Romolo” (Vico dixit), cioè quando caliamo l’ideale nel reale, cominciano i dolori.
La scuola è fondata su due colonne e un capitello: le due colonne sono naturalmente i docenti e gli studenti, il capitello è la famiglia. Vedete voi un personale docente sensibile al tema e capace di insegnare questa educazione civica, storica ed etica all’identità italiana? A essere ottimisti su tre docenti uno è insensibile se non ignorante, inadeguato al tema; uno è ideologicamente avverso, per ragioni che un tempo si sarebbero dette marxiste, internazionaliste e terzomondiste. Dunque, ci resta da sperare nel terzo. Ma la stima è ottimistica, perché dubito davvero che ci sia un terzo di docenti, mi riferisco soprattutto alle materie letterarie e “umanistiche”, dotati di quella sensibilità e capacità.
Gli studenti, manco a dirlo, sono allevati all’oblio e all’insignificanza del tema nazionale salvo una piccola minoranza, di solito autodidatta, o che risente di benefici influssi familiari prima che scolastici, Sono una tabula rasa, autocentrati, disaffezionati alla storia che è la premessa per capire e amare l’italianità. E i genitori a scuola sono in larga parte deleteri, difendono solo i loro figli- secondo un consolidato ma fondato stereotipo – e non sono preoccupati ai temi educativi, formativi, civici.
Ci sono poi tre fattori esterni alla scuola che sono la politica, in particolare i governi, la società e il mondo delle comunicazioni. Nel mondo esterno, il tema dell’identità italiana o l’esigenza di educare all’italianità non è affatto preminente; fa parziale eccezione, almeno sul piano dell’enunciazione, un governo guidato da una leader e da un movimento chiamato Fratelli d’Italia, col concorso di un partito chiamato Forza Italia e un movimento identitario e da ultimo neopatriottico, seppur italo-padano, che è la Lega.
Pensate che si possa insegnare l’Italia in queste condizioni? Difficile, molto difficile. Però che si fa, si rinuncia a priori? Il richiamo patriottico è servito solo per generare qualche consenso e collante in sede di campagna elettorale e poi via?
No, fanno bene a tentare l’impresa i due professori e autori. Ma non si sa da dove partire e da chi. Forse dal ministero della Pubblica Istruzione, dalle commissioni parlamentari, o dal basso, da chi tra i docenti, gli alunni, i media, i genitori vogliono perorare questa causa? Allo stato attuale non mi sembra di notare alcun fervore.
Prima di procedere bisogna intendersi su due tre cose. Insegnare l’Italia vuol dire riammettere nei programmi scolastici uno sguardo privilegiato alla storia italiana, al pensiero italiano, all’arte italiana. Non di chiusura autarchica o sciovinistica, per carità, ma anziché disperdersi nei brevi cenni sull’universo (Gramsci), partire dalla prossimità, cioè dall’Italia e la sua visione.
La prospettiva non dev’essere nazionalista. Anzi, arrivo a dire, scandalizzandovi, che dev’essere internazionalista. Ma non nel senso dell’Internazionale socialista, nel senso marxista dei proletari non hanno patria, o nel senso illuminista e cosmopolitico che siamo cittadini del mondo. Ma nel senso in cui lo intese il nostro Vico: internazionale vuol dire tra le nazioni, non cancellarle o superarle ma porle in relazione. Per Vico la storia universale è la storia delle nazioni, e noi dobbiamo partire dalla nostra, che per giunta è ricca, esemplare e in molti casi speciale.
Insegnare l’Italia poi non vuol dire solo insegnare la Costituzione e la storia dell’Italia repubblicana nata dalla Resistenza antifascista. Vuol dire conoscere la storia, e l’arte, e il pensiero, e la civiltà italiana come si sono formate e dispiegate nei secoli.
Ma insegnare l’Italia comporta un compito di educazione. Civica, etica, spirituale. Finché non torniamo a riconoscere che la scuola debba educare e non solo istruire, debba formare uomini e non solo cittadini; e cittadini e non solo tecnici o dipendenti, allora ogni impresa è vana. E finché continuiamo a pensare che i ragazzi non vadano educati ma solo capiti e assecondati nei loro voleri; non vadano formati ma si debbano autogenerare, magari avvalendosi di agenzie esterne alla scuola, suggestioni e modelli di solito deteriori, allora la scuola continuerà a non servire a niente, o quasi. Ben sapendo che internet, impresa e inglese, le famigerate tre i, le imparano meglio nella vita pratica; alla scuola tocca insegnare ciò che le precede, ha un altro compito, educativo, formativo e critico, fornendo cioè ai ragazzi i mezzi e i saperi per affrontare la realtà e la vita pratica.
Ma chi potrà raccogliere questo messaggio e farlo diventare un disegno generale, un progetto educativo di formazione nazionale? A cosa si ridurrebbe il potenziamento dell’educazione civica in mani, cattedre e menti malate di ideologia radical, gender, politically correct, cancel culture, ecc.?
Insomma, i rischi che l‘impresa di insegnare l’Italia fallisca, degeneri in altro o non parta, sono assai più alti del contrario. E tuttavia, alla fine, meglio provarci, e con Machiavelli concludere: meglio fare e poi pentirsi che non fare e poi pentirsi ugualmente.

La Verità – 29 ottobre 2023

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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