La tragedia degli italiani
L’altra sera, su Raitre, è riapparsa la storia in forma di tragedia. La storia più feroce e controversa, legata alla seconda guerra mondiale, al fascismo e al dramma familiare di Edda Mussolini, di suo padre, il Duce, e di suo marito, Galeazzo Ciano. Un docufilm intitolato Quei due, Edda e Galeazzo, prodotto dal Luce-Cinecittà da un’idea di Beppe Attene. La storia di Edda Mussolini che vede suo marito “tradire” suo padre e vede suo padre dare la morte a suo marito, il marito di sua figlia, il padre dei suoi nipoti, è una tragedia greca, degna di Eschilo o Sofocle. Di Edda Ciano si sono narrate storie minori, edulcorate, magari piccanti, più consone al clima presente. Ma non si è rappresentata adeguatamente la tragedia che sovrasta le scelte, le vite, i destini dei protagonisti. E’ il destino, annota Ciano alla vigilia della sua condanna a morte.
Così la tragedia di Claretta Petacci, mille volte infangata e stuprata, in vita, in morte, in memoria, senza considerarla nella luce assoluta della tragedia. Un amore tragico che travalica la storia, la guerra civile. La tragedia di diventare consorte dell’amato solo in punto di morte, a prezzo della morte violenta. Giacendo con lui solo l’ultima notte, che precede la tragedia per poi finire massacrata accanto al suo corpo nella bassa macelleria di piazzale Loreto. Considerata tale non solo da Ezra Pound o Curzio Malaparte, ma anche da politici antifascisti di sinistra come Bettino Craxi e perfino Massimo d’Alema.
Siamo nel tempo in cui è proibito vedere il fascismo se non con l’occhio della condanna all’inferno, come male assoluto. Ma io non vorrei qui cimentarmi in una controlettura revisionista. Ho visto quelle immagini, l’altra sera, con gli occhi della tragedia, nel senso classico dell’espressione, lasciando inviolati e invariati i giudizi storici, divisi e condivisi, e le condanne conseguenti. Coglievo in quegli eventi e quei personaggi il lato umano, disumano e sovrumano di quel che accadde: la guerra fratricida, l’esecuzione di Ciano, le uccisioni, il finale cruento di Piazzale Loreto con l’esposizione dei cadaveri e il loro oltraggio. La tragedia supera le volontà umane, le usa, le fa impazzire. Chi fa il male e chi lo patisce sono su due piani infinitamente diversi, ma nella tragedia sono tutti prigionieri del loro destino, che ha assegnato a loro una parte. I titani che giganteggiano nella storia diventano nani al cospetto del destino che li trascina dove non pensavano di andare.
Sospendete per un momento la storia, le politica, le colpe, i carnefici e le vittime: siamo al cospetto di una tragedia assoluta. E’ mancata la visione epica e tragica di quegli eventi. Non invoco un giudizio estetico o artistico, teatrale, ma una visione religiosa e metastorica. La sorte degli uomini è come quella delle foglie, diceva Omero. E non ci fu alcun Priamo che ebbe la forza, il carisma, il coraggio di recarsi dal vincitore ancora schiumante di rabbia, inginocchiarsi al suo cospetto e implorare la restituzione dei corpi, almeno quella, per purificare l’odio nella tragedia, e innalzare la storia all’epica, la volontà degli uomini al disegno del fato. L’avremmo voluto un re, un sacerdote, un padre santo, un padre della patria in grado di compiere quell’atto. I riti sono importanti, le civiltà lo sapevano. Placano gli spiriti, ristabiliscono l’ordine del mondo, violato e profanato. Mancò un padre della patria a ricucire quella ferita.
Quella tragedia, non riguarda solo i protagonisti dell’epoca, investe il popolo: è la lotta fratricida di quei giorni, fratelli contro fratelli, vicini contro vicini, amici di ieri che si scoprono carogne, delatori, nemici mortali. Da bambini vivevano da fratelli, giocavano assieme. Spegnete il sonoro delle passioni e delle ragioni, vedete in silenzio quel cambio di scena: è la nascita della tragedia sulle teste ignare degli uomini che assumono ruoli e armature e vanno incontro alla sorte. Quando saremo in grado di dare una rappresentazione liturgica a quella tragedia, come un rito d’espiazione, saremo vicini alla catarsi e alla compassione. Oltre le cause e le passioni, i torti e le ragioni, che nessuno vuol negare, c’è un filo che ci lega, una concatenazione. Che ci coinvolge, ci travolge tutti, e si abbatte ancora sui figli, i nipoti, i pronipoti, in vario grado e misura. Siamo di fronte a qualcosa che ci sovrasta, in cui le volontà singole o di gruppo vengono alla fine usate, insieme al loro dolore. Qui sorge la pietas, la radice di una comune appartenenza e travalica la giustizia e la storia, la politica e le ideologie, le colpe e i crimini. Nella tragedia non ci sono vinti e vincitori, non ci sono verdetti, ogni vittima e ogni carnefice è in certo modo vittima del destino, come burattini tirati dai fili della sorte. Questo ci rende consorti e inermi al cospetto del destino. Quella tragedia non può essere lasciata ai livori e ai lazzi, non è cosa per belve o per idioti; c’è qualcosa di religioso, di fatale, come un’energia profonda ridestata che ha divorato i suoi figli. Qualcosa che ci tocca in quanto mortali.
Non riusciamo più ad accettare la tragedia, ogni disgrazia che avviene, anche quelle naturali, è sempre qualcosa che non doveva accadere, che ha dei colpevoli o delle disfunzioni. Quasi che fossimo destinati all’immortalità e ci tocca morire solo per colpa o per errore. C’è invece un fattore imponderabile che gli antichi chiamano sorte o fato, che supera le intenzioni umane e le stravolge; non era nei piani e nei desideri e costringe a esiti impensati. C’è un piano di comprensione degli eventi che supera la ricostruzione storica dei fatti, un intreccio di fattori naturali e soprannaturali, sovrumani e subumani.
Caricandoci sulle spalle la croce di quel passato, la nostra storia più atroce e divisiva come una ferita e un peso per tutti. Poi ci divideremo sui giudizi storici, sui fatti, le idee, nel ricostruire le storie, sul bene e sul male e nell’assegnare colpe e meriti. Quel fondo umano e cosmico di tragedia ci fa consorti E’ la tragedia del vivere.
La Verità – 5 febbraio 2023