L’arte e i regimi

Non esiste l’arte fascista, sostiene Vittorio Sgarbi nel suo eccellente libro Arte e fascismo, pubblicato da sua sorella Elisabetta con la Nave di Teseo. Vero, ma esiste forse un’arte democratica, liberale, socialista? Non si può confondere l’ispirazione e l’estro dell’artista con le categorie della politica, i regimi, la storia e le ideologie che permearono il suo tempo e con cui fece i conti. Anche se i regimi, da quello comunista a quello fascista, da quello sovietico a quello nazista, pretesero di esprimere un’arte legata alla loro visione ideologica e avversarono l’arte ostile come degenerata o decadente. In realtà più neutro e meno controverso è parlare di epoca fascista come si parla, ad esempio, di epoca umbertina o età vittoriana; c’è uno spirito del tempo che attraversa e influenza l’arte, il potere e i costumi.
Ma risalendo ai principi e poi calandoli nelle esperienze storiche del passato, possiamo dire che il potere incide sull’arte in tre modi. Il primo è il mecenatismo, ossia il potere, civile o religioso che diventa committente e suggeritore delle opere, protettore degli artisti, come è accaduto ai principi e signori ma anche ai papi e ai vescovi del passato. Il secondo livello, che accompagna il primo ma che nell’epoca delle ideologie si fa più invasivo è l’impregnazione: una visione prevale, permea l’epoca, influenza gli autori, premia e valorizza quelli più organici o più omogenei allo spirito del tempo e alle fonti del potere e penalizza gli altri. Il terzo modo di influenzare opere e artisti è, per così dire, il canone inverso: ovvero il potere può favorire l’arte non solo allargando gli spazi, la rilevanza e le opportunità ma anche al contrario comprimendola, negandola, perfino perseguitandola: a volte i capolavori, soprattutto nella scrittura e nel pensiero, più che nelle arti figurative nascono per reagire al potere, per opporvisi o quantomeno per respirare nonostante l’apnea forzata imposta dai regimi. Il caso dei dissidenti nei regimi comunisti e dei fuorusciti dai regimi autoritari e nazisti, i samizdat, conferma che a volte la repressione se non elimina in partenza gli insubordinati, può spingere a lasciare tracce, a sublimare il disagio nell’arte, a realizzare capolavori. Le virtù come le pene nell’inferno dantesco, nascono per analogia o contrappasso, ovvero per imitazione o educazione alle virtù o per reazione ai soprusi e alle minacce.
Molti artisti furono fascisti, alcuni per convenzione, altri per convenienza e molti per convinzione. Pochi furono gli artisti dissidenti. Tanti, e importanti, furono schiettamente fascisti; alcuni, come Ottone Rosai e Mario Sironi, dipinsero soggetti fascisti. Tra i più grandi bisogna però notare che si erano formati nell’epoca precedente al fascismo, a volte a cavallo tra i due secoli. Un po’ come i più grandi, al di là dell’arte, come D’Annunzio, Marinetti, Pirandello, Gentile. Di artisti formati in epoca fascista, per ragioni anagrafiche, ce ne furono pochi, sbocciati alla fine degli anni trenta. Ma è innegabile che una certa visione fascista, unita a quel senso di grandezza e di fierezza italiana, impregnò l’epoca. Il fascismo patrocinò non pochi eventi d’arte, mostre e filoni artistici (l’impresaria più nota fu Margherita Sarfatti). Più vistosa e diretta, invece, fu l’impronta del regime nell’architettura, nelle grandi opere, nelle città di fondazione e in tanti quartieri, nello stile o negli stili che caratterizzarono quegli anni e che avrebbero avuto una consacrazione finale nell’esposizione universale del ’42.
La fioritura dell’arte in quel tempo non ebbe termini di paragone con l’arte del nostro tempo o dei tempi a noi più vicini. Ma è pertinente paragonare l’arte nell’epoca fascista all’arte nell’epoca antifascista o si deve paragonare l’arte nella prima metà del novecento all’arte nella seconda metà? E come cambia la considerazione dell’arte quando si passa dall’epoca delle nazioni all’epoca globale? I paradigmi sono variabili.
Il fascismo proietta sull’arte il suo sguardo da Giano bifronte: da un verso segna il ritorno alla tradizione, alla classicità, e dall’altro progetta l’uomo nuovo nella nuova epoca fascista e dunque cerca uno stil nuovo. Rivoluzione e conservazione, spesso sintetizzati in una forma di rivoluzione conservatrice (o in negativo di modernismo reazionario); anche l’arte in epoca fascista rimbalzò tra i due poli, a volte fondendoli. 
Infine bisogna considerare anche il discorso inverso: non solo di come e quanto il fascismo abbia influenzato l’arte, ma di come e quanto l’arte abbia influenzato il fascismo. Risalgono miei antichi studi (La rivoluzione conservatrice in Italia, del 1987) in cui riprendevo l’estetizzazione della politica, prodotta si dai futuristi e d’Annunzio, ma teorizzata a proposito del fascismo da Walter Benjamin. La politica come arte, da Machiavelli a Wagner e D’Annunzio, l’idea di arte totale che investe ogni ambito, la visione del Capo come Artista Politico, la preminenza dell’aspetto estetico, simbolico, liturgico, rituale, oltre che retorico, mi sembrano elementi importanti. Se il comunismo subordina l’arte all’ideologia, il fascismo tende a far coincidere l’estetica e l’ideologia.  
Insomma, capisco l’efficacia e l’utilità dello slogan che campeggia nella copertina del libro, peraltro prezioso, di Sgarbi, “Nell’arte non c’è fascismo, nel fascismo non c’è arte” ma non mi sembra vero in entrambi i versanti. Poi possiamo discutere dei modi, delle forme, dei lati d’ombra e delle degenerazioni. Ma il discorso va affrontato sul piano metapolitico e inquadrato sul piano storico e comparativo. 
È vero invece che l’artista va considerato e giudicato per la qualità dell’arte espressa e non per l’appartenenza a questo o a quel movimento, regime, ideologia. La grandezza o la miseria di un autore non può essere negata per le scelte della sua vita o le convinzioni che nutrì. Si è grandi nonostante il proprio tempo e a prescindere dai rapporti col potere. Diciamo allora che il fascismo come l’antifascismo non può essere usato per aggiungere o togliere qualcosa all’arte e agli artisti del suo tempo. Magari serve per capire e per spiegare, e a suo tempo servì per spingere o per frenare; ma l’arte, alla fine, risponde all’arte. E la statura dell’artista non dipende dagli stivali. 

La Verità – 5 luglio 2024

Condividi questo articolo

  • Facebook

  • Instagram

  • Canale Youtube

    Canale Youtube
  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

    Leggi la biografia completa

Le foto presenti su questo sito sono state in larga parte prese da Internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione non avranno che da segnalarlo a segreteria.veneziani@gmail.com e si provvederà alla rimozione.

© 2023 - Marcello Veneziani Privacy Policy