Manzoni, chi l’ha più visto?

alessandro amnzoni

Manzoni, chi era costui? È finito nell’oblio lo scrittore italiano per antonomasia, che accompagnò l’unità d’Italia e il suo regno. Per oltre un secolo la scuola e la cultura italiana hanno retto su due basi, Dante e Manzoni, e su due colonne, La Divina Commedia e i Promessi sposi. Erano il minimo obbligato dell’istruzione nazionale, la leva di massa per entrare nella lingua e nella letteratura italiana. Dante fu il padre della lingua italiana, Manzoni fu il riformatore dell’italiano moderno. Dante fondò l’Italia, Manzoni l’accompagnò nel Risorgimento. Fu Francesco De Sanctis a collocare Manzoni sul piedistallo a fianco dell’Alighieri, definendo il suo romanzo storico “un monumento” e sottolineando la funzione civile e politica, popolare e nazionale della sua opera.

Col tempo, invece, è accaduta una doppia mutazione. Una globale, che ha ridimensionato la letteratura nazionale rispetto ai temi mondiali e ha spostato l’attenzione sul presente, distogliendolo dai classici. Ma un’altra mutazione è intervenuta nella cultura italiana e nella percezione degli autori del passato. Oggi Dante resta comunque un fondamento, l’incipit visionario della nostra poesia, come sta dimostrando la forte attenzione dedicata al settimo centenario della sua morte. E se si deve affiancare a Dante un nome più recente della nostra letteratura, il cuore e la mente corrono a Giacomo Leopardi, non più a Manzoni. Si è celebrato ampiamente perfino il bicentenario dell’Infinito leopardiano; si scrivono saggi, si fanno film su di lui. Manzoni è rimasto invece imbalsamato, indietro nel tempo, lo collochi nella scuola presessantottina coi banchi di legno grezzo e il calamaio; nella tv in bianco e nero e nei suoi sceneggiati (memorabile quello di Sandro Bolchi e Riccardo Bacchelli con Paola Pitagora e Nino Castelnuovo nei ruoli di Renzo e Lucia); e lo ritrovi come espressione dell’Italia cattolica, familiare, democristiana, umile e devota, popolana e aristocratica, alle prese col potere, il clero e la vita di ogni giorno. Dante scende negli inferi e viaggia nei cieli, Leopardi esprime l’anima davanti all’infinito; Manzoni resta legato a quel mondo, a quel tempo, a quella storia, a quell’Italia conclusa. Potremmo arrivare a dire che la scomparsa dell’Italia cattolica coincide, e quasi si rappresenta, con la scomparsa del suo scrittore di riferimento, che ne interpretò l’indole, la morale, la famiglia e la religione, i rapporti sociali. Il declino italiano è l’eclisse di Manzoni. Con Manzoni declina il senso storico e con Leopardi sale il senso esistenziale.

Prima di dimenticarlo nella soffitta dei nonni, Manzoni fu però contestato ai tempi del ’68. E la munizione più forte fu ideologica e proveniva da Antonio Gramsci. A Manzoni Gramsci rimproverò di prendere in giro i popolani, farne quasi delle caricature: “Il popolo nel Manzoni nella sua totalità è bassamente animalesco”. Mentre Tolstoj è per Gramsci evangelicamente vicino al popolo, il cristianesimo di Manzoni “ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico”. “Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano – scrive – appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia […] i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione di animali […] niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana […] Vede con occhio severo tutto il popolo, trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo […] non c’è popolano che non venga preso in giro e canzonato […] Vita interiore hanno solo i signori: fra’ Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo […] il suo atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale ma aristocratico». Gramsci attaccava in Manzoni il cattolicesimo.

Non aveva tutti i torti Gramsci, ma la compassione manzoniana per la gente umile segna un’attenzione verso il popolo che nel suo tempo era rara. E l’ironia manzoniana non risparmia figure di ben altra estrazione sociale (una coppia fra tutti, don Ferrante e donna Prassede). E il disprezzo è riservato ai signorotti come don Rodrigo, non certo agli umili. Manzoni abbandona l’epica, la letteratura eroica e pone al centro della sua storia due popolani; racconta il travaglio della gente comune con una umanità che ha pochi precedenti e paralleli. Non a caso, Gramsci trova come paragone alternativo un autore come Tolstoj nato e morto vari decenni dopo Manzoni, quando era già esplosa la questione sociale.

Aveva ragione Prezzolini a notare che Manzoni fu profondamente cattolico, “più cattolico di Dante”, “patriota perché cristiano”; vide il Risorgimento come la purificazione evangelica (e liberal-nazionale) della Rivoluzione francese.

Quel che invece continuiamo a non digerire, dai tempi del liceo, è Manzoni visto come l’esponente di punta del nostro romanticismo. Lui, così misurato, così moderato, così riparato dai fragori e dagli eccessi, è tutto meno che un temperamento romantico, ha tutto meno che una vita romantica e avventurosa, scrive pagine che di romantico hanno ben poco. Perfino i criteri da lui indicati per l’arte romantica – l’utile come scopo, il vero come oggetto, l’interessante come rappresentazione – sono canoni che urtano con la smisuratezza e l’indeterminazione, l’impeto giovanile e l’estro romantici.

Resta però la scomparsa di Manzoni: chi l’ha visto negli ultimi decenni? È sparito insieme alla sua Italia.

P.S. Mia madre recitava sempr il 5 maggio che Manzoni dedicò alla morte di Napoleone, esattamente due secoli fa. Il giorno che mia madre morì, al mattino, chiese che giorno fosse. Era il 5 maggio.

MV,

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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