“Massacrate il Presidente”. Leone, la sinistra e la macchina del fango
Quarant’anni fa di questi giorni fu linciato a mezzo stampa un presidente della repubblica. Si chiamava Giovanni Leone, si era definito presidente “notaio” e il 14 giugno del ’78 fu costretto a dimettersi. Fu il primo presidente della repubblica a subire il linciaggio della stampa radical chic, della magistratura e della sinistra che lo costrinse a dimettersi, salvo poi essere scagionato dalle infamanti accuse e ricevere tardive scuse.
Leone fu il primo presidente irriso e vilipeso, investito dalle fake news e dalla macchina del fango della sinistra politico-mediatica; frugarono nella vita privata della sua famiglia, cercando festini, abusi, corna e gossip. Leone aveva un duplice peccato originale che la sinistra di quegli anni non gli perdonava. Uno, di essere stato eletto da una maggioranza anticomunista di centro-destra, col voto determinante dei missini. Era il dicembre del ’71 e c’era stato il trionfo della destra nazionale alle elezioni amministrative. Due, Leone aveva l’imperdonabile difetto di essere un notabile fuori dalla cupola partitocratica, estraneo ai “giochi conciliari” come allora si chiamava il compromesso storico. Nei mesi in cui fu messo sotto accusa Leone, si stavano gettando le basi in Italia per il primo governo di solidarietà nazionale con l’appoggio del Pci. Eravamo in piena orgia di fronte unitario antifascista e di arco costituzionale, che poi partorì Pertini al Quirinale.
Il fronte che abbandonò Leone al suo destino fu lo stesso che decise di lasciar morire Moro, assestandosi sulla linea della fermezza. C’erano Zaccagnini, Berlinguer e La Malfa che fu il primo a chiedere la testa di Leone. Il partito repubblicano in quegli anni era il garante dei poteri economici in Italia, il partito più vicino a Mediobanca, la Fiat, la Confindustria, e aveva partecipato a quel patto dei produttori, tra imprenditori guidati da Agnelli, mezza Dc, comunisti come Amendola (il capocorrente di Napolitano) e i sindacati guidati dalla Cgil di Lama. Leone era un corpo estraneo da espellere. La Dc scaricò Leone senza troppi scrupoli e le sinistre lo massacrarono, ma ebbe contro anche radicali, laicisti e potentati. Il massacro cominciò a mezzo stampa. Partì dall’Espresso, padre di Repubblica. La più celebre accusatrice di Leone fu Camilla Cederna.
La campagna di moralizzazione contro Leone reggeva su un’ipocrisia grossolana: la sinistra che criminalizzava Leone era la stessa che si accingeva ad allearsi ad Andreotti, Kossiga (come fino a poco tempo prima lo chiamavano), e Moro che fu il principale difensore nel celebre discorso sull’affare Lockheed del ’77 sull’acquisto di aerei Usa, del finanziamento illecito dei partiti. Volteggiava l’accusa di essere Antelope Cobbler, ovvero il mitico destinatario e protagonista dell’affaire.
Mentre linciavano Leone, i moralisti della sinistra erano disposti a governare l’Italia con la sinistra dc, assai navigata negli affari e con i Bisaglia, i Freato, la corrente andreottiana coi Ciancimino, Salvo Lima, Evangelisti e coi socialisti in odore di tangenti, come allora attaccava l’implacabile Candido di Giorgio Pisanò. La sinistra Dc, seguita dai socialisti dell’era ante-Craxi, fu la prima a finanziare la politica attraverso l’abuso del parastato, la dilatazione del potere clientelare e dello statalismo.
Quello contro Leone fu il primo golpe bianco istituzionale e fu il primo abbozzo del triangolo Stampa-Magistrati-Sinistra (il primo sms). Un mezzo precedente era stato il golpe di piazza contro il governo Tambroni, buttato giù nel ’60 dalla piazza rossa perché era un governo di centro-destra con l’appoggio esterno dell’Msi.
Al di là del ruggente cognome, Leone non era un animale protetto, ma un inerme galantuomo del sud, valente giurista, che cantava O’ Sole mio nei viaggi istituzionali, si commuoveva facilmente e faceva gli scongiuri contro i manifestanti che gli auguravano la morte (fu l’unica volta che fece lui le corna). Non gli giovò la forte cadenza napoletana e il fisico da orsacchiotto (altro che leonino). Al Quirinale liquidò la cucina a base di mousse e gelatine del suo predecessore Saragat e importò la cucina napoletana, tra pizza, pummarola, parmigiana, genovese, babà, pastiera e sfogliatelle.
Era superstizioso e una volta non fece salire su un volo per il Vajont un fotografo perchè era il 17esimo passeggero. Fu accusato di essere poco formale e troppo colorito. Salvo poi esaltare le fuoruscite impertinenti dal protocollo del successore Pertini. Leone fu eletto per evitare che arrivasse al Quirinale il nostro mezzo de Gaulle, Amintore Fanfani, allora sostenuto anche dalla destra. Si temeva la svolta presidenzialista, i rumori di sciabole di golpe veri e presunti erano ancora recenti e allora si puntò su un prestigioso ma disarmato penalista che aveva avuto l’umiltà di guidare tanti governi balneari. Circolarono le leggende sugli inquilini del Quirinale: Bacco Becco Becchino… Ma nessuno prima di lui al Quirinale subì insinuazioni così massacranti. Leone si trovò a presiedere la repubblica negli anni più neri; lui, soldatino di latta negli anni di piombo, tra stragi, servizi, morte di Calabresi, Pasolini e Moro, violenze politiche, decine di giovani missini uccisi, le Brigate rosse…
Troppi remavano contro di lui, ci fu qualche leggerezza della sua stessa famiglia; lo mettevano in cattiva luce perfino i corazzieri, rispetto ai quali Leone sembrava Renato Rascel nella celebre pantomima… Leone fu poi prosciolto, quando ormai non interessava più a nessuno la verità, la Cederna fu condannata per diffamazione, qualcuno si scusò con lui in occasione dei suoi 90 anni, come Pannella e la Bonino, altri più viscidi e fanatici tacquero.
Quando si dimise, ebbe lo spirito di commentare ai due becchini che raccolsero le sue dimissioni, Zaccagnini e Andreotti: “così potrò godermi in santa pace i mondiali di calcio”. Fu il primo presidente emerito, proclamato da Napolitano, che così ufficializzò la sua riabilitazione.
Leone fu un presidente buono, una specie di Giovanni XXIV in borghese. “Uno buono”, lo ricordò in una canzone a lui dedicata, Edoardo Bennato. Leone da Napoli – il contrario di Napoleone, benché di medesima statura, accettò la defenestrazione dal Quirinale senza clamori, con signorile rassegnazione. Non volle vivere un giorno da Leone; preferì l’altra più mansueta soluzione. Cent’anni da pecora, o poco meno.
MV, Il Tempo 10 giugno 2018