Quando l’ingenuo Che fu truffato dal Pci

Tra paciose bandiere dell’arcobaleno fa capolino in Italia e nel mondo una faccia guerriera che va forte anche nei Paesi islamici e in Irak; è la faccia barbuta del Che, il mitico comandante Ernesto Guevara. L’industria del santino sta lavorando alla grande sulla sua icona in questi giorni di guerra. In Sud America hanno finito di girare un film su di lui, concepito dal suo devoto agiografo Gianni Minà, girato da un regista brasiliano. Ma se è per questo già circola un porno-Che in pellicola. Che Guevara, l’eroe rivoluzionario che combatteva contro l’imperialismo americano, è oggi il gadget più venduto nella società dei consumi d’Occidente. A trentasei anni dalla morte la sua faccia è la più diffusa sulle magliette di tutto il mondo, piace a grandi e piccini, ai ragazzi di oggi e ai sessantottini invecchiati che nel suo santino ritrovano i loro vent’anni ribelli.

In principio fu la foto celebre scattata da Korda, che fece del Che un top model della rivoluzione e della lotta al colonialismo. Ma c’è davvero di tutto al supermercato globale intorno a Che Guevara. L’immagine del Che serve a vendere sigari cubani e bustine di zucchero, bottiglie di vino rosso, musica in cd e spartiti che cantano le sue imprese, come i cantastorie di una volta. Il Che è entrato nel mondo dei fumetti e nel business degli orologi che battono l’ora della rivoluzione. Ci sono pure i pellegrinaggi turistico-ideologici sulle tracce del Che in uno steward col basco per sogni esotici a prezzi rivoluzionari. (…)

La sua immagine non spopola solo in Occidente: troviamo i poster del Che anche in versione araba e islamica. Ma i santini del Che arrivano più in alto; avrete visto l’immagine del Che con la corona di spine, trasformato in Gesù Cristo. E non mancano nemmeno gli incroci pericolosi: se per alcuni il Che diventa un testimonial per fumare le erbe e farsi canne in libertà, per altri diventa il figlio spirituale del duce: una frase profetica di Mussolini lo evoca come suo erede e continuatore. Insomma col Che di ogni erba un fascio.

Perché piace il Che? Perché è bello e figo, direbbero i più superficiali, e l’immagine conta assai nella società dello spettacolo. È difficile che abbia lo stesso successo nelle magliette il volto rattrappito di madre Teresa di Calcutta o il faccino smunto e roditore di Gandhi. Anche se i due con la pace c’entrano di più di Guevara. Ma il Che piace soprattutto  perché è rimasto una promessa irrealizzata, la sua vita precocemente stroncata ha avuto la tragica fortuna di restare una rosa non colta. Il mito è bello e la sua coerenza  guerriera va rispettata, anche perché ha pagato con la morte. Ma non fa male poi bagnarsi nella realtà per denunciare le omissioni e le ipocrisie dei suoi cantori. Chi racconterà che il comandante Guevara fu un utopista sconfitto dalla realtà, fu un rivoluzionario rigoroso e spietato, un Saint Just puro e feroce che avrebbe instaurato una dittatura ben più cruenta di quella castrista? Chi rivelerà ai suoi variopinti seguaci in falce e spinello che il Che non tollerava nel suo entourage, come ha testimoniato Regis Debray, “omosessuali, deviati e corrotti” perché egli fu “un sostenitore dell’autoritarismo fino al midollo”? Chi dirà ai suoi aficionados che fu lui a Cuba a far nascere il primo campo di concentramento per “rieducare” gli avversari del regime nella penisola di Guanaha? Chi ripeterà la sua frase terribile e assai poco pacifica che “l’odio efficace fa dell’uomo una violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”? Chi ricorderà che il Che al governo imitava il fallimentare modello sovietico di una pianificazione ultracentralizzata? Chi racconterà che il Che fu un pessimo ministro dell’Industria e un pasticcione troppo ideologico come governatore della banca nazionale al punto che la sua esperienza di governo finì precocemente e ingloriosamente, cominciò a viaggiare e coltivò uno strisciante dissenso rispetto al governo? Chi ricorderà che Fidel nel suo elogio funebre lo esaltò come combattente ma preferì tacere sulla sua esperienza di ministro e di governatore?

A tale proposito vorrei raccontare una vicenda che riguarda il Che al governo ma anche noi italiani: è la storia sconosciuta del Che che fu truffato da un gruppo di comunisti italiani. Erano i primi anni Sessanta, il Che era ministro dell’Industria nel governo di Catro e governatore del Banco Nacional di Cuba. Decise di far sorgere a due passi dalla spiaggia di Varadero, a Matanzas, una fabbrica di fertilizzanti. A installare l’impianto è chiamata una ditta italiana: il suo rappresentante è un imprenditore lombardo, Stefano Campitelli, che mi documentò la vicenda. Campitelli diventa amico e consulente di Guevara e gli procura le erbe per curare l’asma  e il Parmigiano di cui il Che è ghiotto. Tra la ditta italiana e il Che si intromette però un gruppo di comunisti italiani, che si occupa garantire il governo rivoluzionario dai capitalisti italiani e di fornire tecnici affidabili per compiere l’impresa. Questa società, la Ciei, pretende che le sia pagata una doppia mediazione dal governo di Castro e dall’azienda italiana. Il Che, ingenuamente, firma cambiali  e le paga prima che i lavori siano finiti. Ma dopo aver incassato i dollari, la società italiana lascia incompiuta l’impresa e sparisce. Guevara manda allora un suo sottosegretario in Italia che va a bussare a varie porte, compresa la sede del Pci alle Botteghe Oscure. Ma non riesce a riavere né i soldi né il completamento dei lavori, che vengono affidati ad un’impresa statale della Germania Est. E così il mitico Che fu truffato per un milione di dollari da un gruppo di compagni italiani che magari in casa hanno ancora il poster di Guevara. Alla faccia del Che….

Dissero che il Che andò in Bolivia a cercar la bella morte deluso dalla politica. Perché il Che era ingenuo e sognatore, come l’Idiota di Dostoevskij. Meglio allora sognarlo in guerriglia nella vegetazione sudamericana o in moto ad attraversare da ragazzo la pampa, piuttosto che pensarlo dietro la scrivania di un ministero o di una banca o a mobilitare gli apparati polizieschi di regime. È un sogno romantico che merita un film come lo avrebbero meritato eroi romantici di sponde avverse, da Yukio Mishima a Berto Ricci, magari passando per i più controversi Bombacci, il comandante Borghese e Codreanu. Ma guai a trasferire i sogni romantici nella realtà perché nascono i mostri del fanatismo o i mostriciattoli dell’inconcludenza, dell’incapacità di governare la realtà. Non confondete le icone del mito con la vita quotidiana; non lasciate ai poster l’ardua sentenza.

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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