Da Almirante in poi fare il saluto romano non ha più senso
Oggi si ricorda a Roma Giorgio Almirante a venticinque anni dalla scomparsa. Ieri c’era una folla degna dei suoi comizi a ricordarlo a Frosinone. Di lui, massimo paroliere della Destra italiana, miglior oratore della Repubblica, leader amato e proibito per il suo carisma nostalgico, non voglio fare un ritratto, che già feci tempo fa.
Vorrei solo evocare un rito di cui fu per quarant’anni il Sommo Sacerdote. Dico il saluto romano, con cui Almirante fu salutato a piazza Navona quel 22 maggio del 1988, accanto a Pino Romualdi, morto nelle stesse ore. Fu una maestosa cerimonia d’addio, il canto del cigno del mondo nostalgico. Non prendete queste righe per un pezzo politico di tipo nostalgico. Sarebbe surreale e irragionevole, fuori luogo, fuori tempo. Questo è puro vintage, dove la nostalgia assume tratti sentimentali, emotivi ed estetici, non politici, storici e ideologici. Quasi novant’anni fa entrava in vigore un decreto governativo che rendeva obbligatorio il saluto romano nei luoghi pubblici e nelle sedi amministrative. Non fu una trovata di qualche oscuro gerarca; l’idea originaria era di D’Annunzio ed evocava il romano Ave Caesar. Dall’Ave Maria si passò all’Ave mania.
L’ultima volta che ho visto spuntare una selva di braccia tese è stato un mese fa, ai funerali di Teodoro Buontempo, all’uscita del suo feretro dalla Chiesa. Officiava il rito come sempre Bruno Di Luia che ha gridato tre volte «Camerata Teodoro Buontempo presente!». E i camerati rispondevano col grido e il saluto romano. Posso assicurarvi, e me lo confermava chi era venuto ad accompagnarmi in Chiesa e vota a sinistra, che quel rito d’addio aveva una forza liturgica così intensa e corale che nemmeno la funzione religiosa era riuscita a esprimere. Raccontava una vita e una morte, una storia e una comunità. Nulla di retorico o di minaccioso. Mi ha commosso, diceva l’aliena, e non era la sola.
Mi colpirono da ragazzo i saluti romani indirizzati alla bara del Principe Junio Valerio Borghese. Erano un atto di eroica strafottenza verso il mondo e il potere, la viltà dei benpensanti e l’arroganza dei pugni chiusi. Li vedevo con gli occhi di un ragazzo che amava i gesti simbolici. Erano gli anni Settanta, duemila anni fa. «Selva di braccia tese», cantava Lucio Battisti e i ragazzi di destra pensarono orgogliosi che si riferisse a loro. Vero o falso, come poi mi disse il suo paroliere, Mogol, quella frase entrò nel mito e nelle mani. Lucio è nostro, Lucio è nostro.
I più teatranti allungavano il braccio al cielo, i più ispirati ne rivolgevano pure lo sguardo, i più timidi accennavano una manina atrofizzata, i più fanatici salutavano alla tedesca, i più coreografici accompagnavano il saluto romano con un batter di tacchi e il mento in alto. Comodi, riposo, dicevano i più ironici. Al saluto romano i più scettici con licenza ginnasiale rispondevano: Ave Caesar morituri te salutant. E il camerata dopo il saluto romano usava la stessa mano per una più prosaica grattata ai genitali. «A noi!» gridavamo in sezione al vecchio camerata sordastro. «Tutto a noi e niente a loro», rispondeva sempre lui. Lo chiamavano Mani di fata, l’unico gay capitato tra i virili camerati, che salutava romanamente con la manina delicata ai comizi di Almirante; poco fascio ma tanta grazia. Una volta entrai in un circolo di benpensanti che giocavano a carte. Gridai «A noi», si fermarono e mi guardarono male. Allora aggiunsi: è stata presa Hanoi, la capitale del Vietnam. Se a un democristiano stringere le mani in campagna elettorale portava voti, a un candidato missino li toglieva. Ogni mano stretta era un saluto romano in meno. Sarà un traditore, un badogliano, non avrà le mani pulite. I camerati duri e puri, invece, non si accontentavano del Saluto Romano, preferivano il saluto personale con l’avambraccio, uno avvinto all’altro. L’intensità del saluto misurava il camerata in purezza. Ammazza che forza, sarà un camerata de core e de fegato.
Il saluto romano cominciò a declinare quando cominciarono le vie di mezzo, i saluti a mezz’asta, le manine ambigue con leggera motilità, per dissimulare l’atto impuro, come quelle che si usavano nelle auto kitsch di un tempo appiccicate ai lunotti. Sono grotteschi i saluti romani in epoca democratica e antifascista. Ma ancora più ridicolo era far scattare la denuncia d’apologia di fascismo per un saluto innocuo e antico, come se il folclore fosse criminalità. La nostalgia è un sentimento, non un delitto. Si può esser giudicati fessi per un saluto romano, non delinquenti. Anacronistici, non terroristici. Tanto per fare archeologia comparata, non mi dispiace neanche il pugno chiuso, ha una forza simbolica raccolta e concentrata, una promessa che coincide con una minaccia. Però che volete, provo maggior simpatia estetica per il saluto romano rispetto al pugno chiuso. È un segno estroverso, meno cattivo, più classico, più naturale, più socievole e più teatrale, perfino autoironico… (Oggi se dici Saluto Romano pensano che stai salutando Prodi trombato). A volte ho nostalgia del saluto romano. Ti evitava con un gesto unico e collettivo giri prolissi con fastidiose strette di mano, scambi di cortesi e sudate ipocrisie del tipo «piacere, onorato, molto lieto», e via coglionando il prossimo con ricevuta di ritorno. Rivalutai il saluto romano dopo una conferenza in un Lions club, quando alcune persone stringendomi la mano, mi tastarono con un dito il polso; mi dissero poi che era il saluto massonico. Se era ridicolo il primo, non vi pare ridicolo pure il secondo? Erano un po’ comici i camerati che a fascismo sepolto andavano in camicia nera, ma non trovate un po’ comici pure i fratelli col cappuccio e il grembiulino? Rimpiansi il saluto romano affacciandomi a Bologna a un’assemblea nazionale di An. Dovevo urinare con una certa urgenza ma entrando in bagno fui bloccato da una fiumana di postfascisti reduci dai gabinetti – si vede che dopo Fiuggi la parola d’ordine, categorica e impegnativa per tutti, era: Mingere e Mingeremo – che mi strinsero tutti calorosamente la mano. Considerando che, secondo statistica, uno su due uscendo dal bagno non si lava le mani, fu una catastrofe sanitaria. Rimpiansi allora i tempi d’oro del saluto romano, più rapido, più igienico. Alla ricerca proustiana e prostatica del tempo perduto.
Insomma, reputo il saluto romano oggi efficace per sottolineare una situazione tragica o grottesca, tra il rito e la gag, per animare una liturgia o una pantomima, per evocare un passato antico e per coglionare un presente infame. Ma non riguarda più la politica né la polizia, semmai la Sovrintendenza alle belle arti. Almirante capirà.
Il Giornale, 22/05/2013