Antonio Gramsci
Suvvia, finitela con questa fiction su Gramsci. Sta nascendo un Gramsci surreale, inverosimile e innocente da una serie di libri apologetici, fiumi di articoli, ora perfino i fumetti su di lui bambino (Nino mi chiamo, di Luca Palesu, Feltrinelli), predicozzi gramsciani in tv (l’ultimo di Ettore Scola), annunci di gramscismo in America e in Oriente.
È tornato il mito di Gramsci stavolta in versione disabile di genio, bambino prodigio, santo liberale, nemico della dittatura.
Vogliamo ricordare che Gramsci opponeva alla dittatura e alla violenza fascista non la libertà e la legalità ma la dittatura di Lenin e la violenza «progressive», ritenendo che il male non fosse la dittatura o la violenza ma il suo essere reazionaria?
Vogliamo dire che Gramsci restò sempre leninista e teorizzò in carcere un totalitarismo ben più radicale di chi lo aveva messo in carcere? Vogliamo dire che mentre a Carl Schmitt nella Germania liberata veniva vietato di accedere alla biblioteca e di scrivere, a Gramsci in carcere il regime fascista consentì di ricevere libri e riviste e di scrivere i Quaderni?
E vogliamo dire che il teorico del nazionalpopolare massacrò nei suoi scritti la tradizione nazionale e popolare italiana e la nostra letteratura, esaltando al suo confronto quella russa, giudicando la cultura del passato con le categorie ideologiche del suo presente e auspicando una pedagogia intollerante?
Da anni Gramsci è venerato come il fautore del primato della cultura, il maestro ideale per i nostri docenti, l’elaboratore appassionato di una cultura nazionale e popolare. Dimentichiamo, invece, che Sant’Antonio Gramsci, come lo definì sul Giornale Rosario Romeo, demolì la tradizione nazionale, religiosa e civile, letteraria e culturale, sulla base del suo canone ideologico. Nell’80 uscì sul tema un documentato libro di Gigliola Asaro Mazzola, Gramsci fuori dal mito, edito da Armando.
Gramsci liquidò Dante come un reazionario, «un vinto dalla guerra delle classi che sogna l’abolizione di questa guerra sotto il segno di un potere arbitrale… egli vuol superare il presente ma con gli occhi rivolti al passato». Dante è letto con amore dai «professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta e scrittore» (già, Dante era solo «un qualche poeta e scrittore»…).
Sbrigò Petrarca come «un intellettuale della reazione antiborghese» e il suo Canzoniere «una manifestazione di cultura elitaria, cortigiana, insincera… un fenomeno puramente cartaceo». Anzi per Gramsci l’umanesimo «fu un fatto reazionario della cultura». Considerò Foscolo come autore retorico, «esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato», e inchiodò Leopardi al «calligrafismo» e crudelmente aggiunse «nascono già vecchi di 80 anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento», malati di «torbido romanticismo» e di una visione «passatista e reazionaria».
A Manzoni Gramsci rimprovera di prendere in giro e canzonare i popolani, mentre hanno una vita interiore solo i signori: «Il popolo nel Manzoni nella sua totalità è bassamente animalesco». Mentre Tolstoj è per Gramsci evangelicamente vicino al popolo, il cristianesimo di Manzoni «ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico».
Ma la mattanza continua. Mazzini è animato da «un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato», Carducci è salvato solo per il suo Inno a Satana, a Pascoli rimprovera ancora la retorica e «la bruttezza di molti componimenti», «la falsa ingenuità che diventa vera puerilità». D’Annunzio «è stato l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano». Verga e il verismo sono stroncati perché si limitano «a descrivere la “bestialità” della così detta natura umana (un Verismo in senso gretto)» e non offrono «apprezzabili rappresentazioni del lavoro umano e della fatica».
È strage poi nel Novecento: Soffici scrive opere «intimamente ripugnanti»; Ungaretti è «un buffoncello di mediocre intelligenza»; Montale – e così Comisso – «esercita la professione di sacrestano letterario e nulla più»; Papini è un «boxeur di professione della parola qualsiasi» e «un grande fabbricatore di luoghi comuni rovesciati»; Prezzolini si adatta in un comodo cinismo per «la propria inettitudine organica»; i letterati vociani tradiscono «tendenze carnevalesche e pagliaccesche»; Malaparte denota «uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco». Se questa è la cultura, non resta che rifugiarsi nella barbarie…
Il pedagogo Gramsci scrive in una lettera del ’29: «l’uomo è una formazione storica ottenuta con la coercizione», allineandosi alle tesi del sovietico Makarenko e respingendo le teorie di Gentile. Gramsci disprezza i docenti, oggi in buona parte di formazione gramsciana: «noiosissima caterva di saputelli», «i professori canagliuzze, insaccatori di leggiadra pula e di perle, venditori di cianfrusaglie». Il Gramsci maturo auspica la cancellazione del latino e del greco per «la loro inessenzialità come contenuto esclusivo e privilegiato» e auspica che la scuola sia organizzata come una fabbrica, esattamente come nell’Urss di Stalin tentava di fare il ministro della pubblica istruzione Lunaciarskij.
Lombardo Radice notava: «Gramsci si poneva – come Stalin e non contro Stalin! – sul terreno del marxismo creatore (È stato proprio Stalin a dire: “esiste un marxismo dogmatico e un marxismo creatore: io mi pongo sul terreno di quest’ultimo”)». In definitiva cosa resta da fare, si chiedeva Gramsci, e si rispondeva così: «Nient’altro che distruggere la presente forma di civiltà: distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite». «Non aver paura dei mostri», «non spaventarsi della distruzione».
Sarebbe contento oggi Gramsci di vedere la scuola semidistrutta e i mostri danzare sulle rovine della cultura? Intendiamoci: c’è poi l’altro Gramsci, acuto e appassionato, eroe della cultura e martire delle sue idee, che merita ogni rispetto. Ma non va trascurato il Gramsci distruttore e intollerante, e la sua nefasta influenza. Gramsci va letto e riconosciuto per quel che fu, un grande ideologo; non fatene un gesù bambino.
Quanto alla dittatura, Gramsci patì la padella ma sognava d’imporre la brace.
Il Giornale, 11 giugno 2012