Jean Cau
Così il «Cavaliere» di Dürer diventò l’icona eroica della destra nobile e perduta
Cinquecento anni fa nel cuore dell’Europa nacquero due gemelli separati della nascita. Uno voleva conquistare il potere, l’altro voleva conquistare l’anima del mondo. Era il 1513 quando vennero al mondo il Principe di Niccolò Machiavelli e il Cavaliere di Albrecht Dürer.
Il primo conquistò il mondo, pur senza conquistare l’Italia che pur sognava di unire. Il secondo partì alla conquista di se stesso, sfidando la Morte e il Diavolo. Ambedue attraversarono l’inferno e aprirono il destino della modernità. Il Principe diventò il paradigma del Potere e celebrò nell’opera di Machiavelli l’autonomia sovrana della politica. Il Cavaliere diventò la sua ombra vagante e celebrò nell’incisione di Dürer la solitudine eroica e disperata.
Le due figure furono il riassunto epico e tragico della condizione umana che ha perso il cielo. Il primo insegnò l’arte di vincere, il secondo insegnò l’arte di perdere. Del Principe si parla ormai da cinque secoli; del suo gemello solitario, invece, si ammirò il ritratto, il suo incedere ardito e il suo sorriso ironico ma senza spingersi oltre, a scrutare nell’animo del Cavaliere.
Chi lo fece, venne molto dopo. Fu uno scrittore francese nato a Carcassonne nel sud della Francia, dove visse estati torride e inverni di vento violento, poi partì per Parigi «con una valigetta in legno e l’accento della mia terra», studiò filosofia «che spero di aver dimenticata» e lavorò da giornalista e scrittore con registi, ballerini, coreografi, attori e toreri. Morì il 18 giugno del 1993, giusto vent’anni fa.
Si chiamava Jean Cau, era stato segretario personale di Sartre per dieci anni, «facevo parte dei reparti d’assalto dell’intelligenza di sinistra», insignito da giovane del premio Goncourt per il suo libro La pietà di Dio (tradotto nel 1961 da Mondadori). Ma un giorno, tornando dalla guerra d’Algeria, si convertì all’onore e alla tradizione. Combatté contro la decadenza della Francia e dell’Europa, schiacciata tra l’americanizzazione e il comunismo sovietico, avversò il ’68. Gli estremi del degrado erano per lui la gioventù drogata e la tecnocrazia al potere.
Da allora Jean Cau diventò quel Cavaliere solitario e in disparte, dannato all’inferno e alla morte civile. Scrisse opere taglienti, come Il Papa è morto e Le Scuderie dell’Occidente, pubblicate in Italia da Volpe, e celebrò la corrida in un celebre libro, Toro (edito in Italia da Longanesi) dedicato ai suoi amici matadores, banderilleros e picadores.
Non mancò di scrivere un ardito elogio del Che (Passione per Che Guevara, Vallecchi, 2004), che esaltò come un Comandante intrepido, un artista, insomma un Cavaliere che sfida la morte e il diavolo. Per lui, il Che andò a cercar la bella morte: «Ci sono mille modi di suicidarsi. Balzac scelse il caffè, Verlaine l’assenzio, Rimbaud l’Etiopia, l’Occidente la democrazia, e Guevara la giungla».
Cau lasciò uno splendido testamento ideale con una prefazione di Alain de Benoist, che uscì postumo in Italia col titolo I popoli, la decadenza, gli dei (ed. Settecolori). Ma l’opera che riassume la sua visione del mondo fu proprio quella dedicata all’incisione di Durer, Il Cavaliere la morte e il diavolo (1977), che dopo Volpe ripubblicai alla metà degli anni ottanta con la prefazione di un grande artista e incisore affine a lui, Sigfrido Bartolini.
In questi giorni il sito Barbadillo si è ricordato di Cau proponendo on line uno scritto sul Cavaliere di Dürer, a lui ispirato, di Dominique Venner, lo scrittore suicida un mese fa in Notre-Dame. Il Cavaliere di Dürer, riletto da Cau, costituì un breviario del pessimismo eroico che animò la gioventù di destra degli anni settanta. Era la cultura aristocratica della nobile sconfitta, eroica e disperata, che si nutriva dell’Autarca di Evola e dell’Anarca di Jünger, il ribelle che passa al bosco. Oggi il suo destriero per attraversare la foresta sarebbe il web.
Ma chi era il Cavaliere di Dürer nella visione di Cau? Era «un mostro di ferro, di carne e di spirito», che avanza con la sua armatura e il suo destriero in un paesaggio di rovine, spavaldo e incurante dei pericoli. «Stamattina, al nostro appuntamento all’alba, il mio cavaliere mi ha detto che poco importa la meta e la ragione del suo viaggio, purché una cupa ostinazione gli indurisca il cuore». Mai fermarsi, chi si ferma nella foresta è perduto.
L’arte per lui è il canto per esorcizzare la morte. Egli sa che più si ama la vita più si sfida la morte. Ogni grandezza, spiega Cau, è costretta ad avere la morte per compagna. Il suo portamento naturale si chiama nobiltà. Nulla è più bello dell’uomo quando avanza, osa, rischia; ma è un avanzare verso il Nulla, avverte Cau. Nichilismo eroico e solitario. Anche se poi Cau dice che il Cavaliere ha appuntamento con Dio, contro il Diavolo. Coltiva l’aspro gusto sulle labbra di morire per una causa vinta.
Il Cavaliere, per Cau, conosce la strana tristezza dei vittoriosi e la melanconia che invade il soldato dopo la vittoria. La stessa tristezza che segue l’amore post coitum. Ciò che vale nella vita non è la vita stessa, sostiene Cau, ma ciò che se ne fa; l’Occidente sta perdendo la sua vita per volerla salvare.
Fedele alla sua solitudine, Cau come i sessantottini che detestava, rifiutò il matrimonio e i figli, ritenendo se stesso ancora bambino, proprio come loro. Coltivò una destra come stile, «strettamente personale… è la mia pelle, i miei gesti, il mio respiro». Ammise che la sua morale assoluta, in purezza, finiva per esser vuota perché sconnessa dal mondo. Non si è felici quando non si ama la propria epoca, scrive Cau, e «io ascoltavo il vento dei passati perduti».
Ma la sua solitudine pur eroica era figlia di quell’individualismo che è l’essenza della modernità occidentale. Il suo Cavaliere resta il volto tragico dell’umanità moderna che ha perduto il cielo e la terra e si barrica nell’individualismo eroico. A vent’anni me ne innamorai, ma subito dopo me ne allontanai per tornare alla realtà e al mondo con le sue imperfezioni e ritrovare la gioia di vivere senza dimenticare la nobiltà estetica e spirituale del suo tragitto. L’individualismo eroico rischia di mutare in astio e rancore, come accadde a tante destre «strettamente personali».
Scrissi allora, per esorcizzare il suo fascino, che «era tempo di tornare nel frangente a rischiare la propria nobiltà nella polverosa miseria dei giorni». Distinguevo l’arte, che è da solisti, dalla storia, che è corale. Il Cavaliere di Dürer-Cau resta inciso nel cuore, ma non indica la via. Esalta l’estetica, traccia uno stile ma non può ispirare la vita, la storia e il pensiero. Così salvai i vent’anni dal suo forte richiamo, ma non misi a riparo i cinquanta.
MV, Il Giornale 17 giugno 2013