La Spagna tra Franco, i rossi e José Antonio

Con l’aprile di ottant’anni fa finiva in Spagna la sanguinosa guerra civile. Il Caudillo Francisco Franco andava al potere. La Spagna conservatrice, cattolica, militare e nazionalista debellava la Spagna repubblicana, comunista, laica e antifascista. Il franchismo è stato il bersaglio ideale per concentrare in una sola immagine il Nemico Assoluto della modernità e della sinistra: golpista, militarista, fascista, clericale, servo degli americani. Un riassunto ideale del Nemico e la rappresentazione militare di Dio, Patria e Famiglia. In Italia poi, col paradigma franchista si prendevano due piccioni con una fava: il fascismo e la Dc, rispetto ai quali Franco era ritenuto l’anello di congiunzione, la dimostrazione vivente del clerico-fascismo, sintesi reazionaria tra militare, clericale e dittatore. Il clerico-fascista è il cugino opposto del catto-comunista. Lo confermava il sostegno che la Chiesa, poi l’Opus dei, gli agrari dettero al franchismo.

In realtà, la vittoria di Franco segnò una duplice sconfitta: una maggiore del comunismo e del laicismo repubblicano che era suo alleato; e una minore, ma non meno significativa del fascismo. Qui entra in gioco la figura chiave del “fascismo” spagnolo: il marchese José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Movimento falangista. Una lettura di comodo racconta che la Falange diventò una colonna del regime di Franco che instaurò in Spagna il culto di José Antonio. In realtà le cose andarono diversamente. La Falange voleva realizzare una rivoluzione ulteriore, che partendo dal socialismo e dal sindacalismo si volgesse in chiave nazionale e spirituale. Contro il ripristino dell’ordine sognato da conservatori e militari, José Antonio nel manifesto della Falange sognava un ordine nuovo: “Nessuno ci supera nella rabbia e nel disgusto verso l’ordine conservatore, affamatore di masse enormi e tollerante verso le dorate oziosità di pochi”. E aggiungeva: “Dopo gli scontri, ogni collaborazione con gli elementi dell’ordine è espressamente proibita”. I falangisti sognavano un regime nazional-sindacalista, totalitario in senso fascista, ripudiavano “il sistema capitalista”, come è scritto nel loro programma. Davano ragione a Marx sulla concentrazione della ricchezza e sull’estensione universale del proletariato ma respingevano il suo materialismo e il suo internazionalismo. Criticavano la monarchia e i propositi “reazionari e controrivoluzionari”, bacchettavano la sinistra perché priva di sensibilità nazionale e la destra perché priva di sensibilità sociale. Simpatizzavano per il fascismo, considerandolo “un’iniezione di vita” “per rianimare la tradizione” e amavano Mussolini che José Antonio andò a trovare nel ’33 a Palazzo Venezia e da cui fu aiutato. Invece non amava il Fhurer: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio”. E detestava il razzismo: “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”, scriveva José Antonio sulla rivista falngista non a caso battezzata “Il fascio”. A Franco lo univa la comune ispirazione patriottica e religiosa. L’unica lettera che José Antonio scrisse a Franco rimase senza risposta; i due s’incontrarono una sola volta, prima dell’alzamiento al matrimonio di Serrano Suner, amico d’infanzia di Josè Antonio e cognato di Franco (in Spagna si parlò ironicamente di “cunadismo”, cognatismo).

Quando José Antonio fu catturato dai “rossi” e finì nella prigione di Alicante, un gruppo di falangisti guidati da Agustin Aznar voleva liberarlo. Franco non fece nulla per sostenerli, anzi, avrebbe boicottato l’impresa. Sembra di leggere la storia di Togliatti e Gramsci: c’era la possibilità di liberarlo attraverso uno scambio di prigionieri ma i comunisti preferirono avere un martire piuttosto che salvare un compagno scomodo e sempre più critico verso lo stalinismo.

Nella sua unica intervista in carcere al giornalista inglese Jay Allen, José Antonio disse che se vincerà Franco probabilmente “io tornerò in questa prigione o in un’altra”. Esagerava. Ma questo spiega perché il successore di Josè Antonio alla guida della Falange, Manuel Hedilla, organizzò un golpe antiFranco, per proclamare un governo rivoluzionario, con l’appoggio della sorella di José Antonio e dei tedeschi. Un po’ come accadde in Italia coi dannunziani antifascisti di Alleanza Nazionale. Il tentativo fu sventato e finì con quattro condanne a morte poi commutate in ergastolo. La differenza tra Franco e Josè Antonio è più netta di quella che corre tra movimento e regime fascista, per usare le categorie di De Felice per spiegare il fascismo al potere, ma anche la differenza tra Stalin e Trotskj o tra Castro e Che Guevara. Josè Antonio, ucciso dai repubblicani spagnoli nel ’36, scrisse: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poeticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. Romanticismo politico puro. Franco unificò con la forza falangisti e carlisti.

Al di là dell’ossequio formale per la Falange, Franco instaurò un regime paternalistico e conservatore, autoritario ma non totalitario, gradito ai poteri economici, ma anche alla gente. Non abbracciò il fascismo e il nazismo, non li seguì nell’avventura della guerra mondiale, si legò agli Stati Uniti. Spoliticizzò la società spagnola, modernizzò cautamente il paese e infine ricondusse pacificamente la Spagna alla monarchia costituzionale. Legò la Spagna alla Chiesa e alla Famiglia. Di nascosto anche l’Inghilterra, la Francia e il capitalismo mondiale tifarono con la Chiesa e il Papa per Franco contro un regime anticlericale e filostaliniano in Spagna. Cosa sarebbe stata l’Europa se fosse rimasta dentro la tenaglia di un regime sovietico a est e un regime filostaliniano a ovest, in Spagna? Del resto, George Orwell, Simone Weil e il nostro Randolfo Pacciardi, partiti per difendere la repubblica, tornarono anticomunisti, sconcertati dagli orrori dei compagni. Il franchismo fu per molti un male che si opponeva a un peggio. Il fascismo c’entra poco; in Spagna finì con José Antonio, el Che Guevara della rivoluzione falangista.

MV, La Verità 2 aprile 2019

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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