Le ceneri di Gramsci

Il 27 aprile di ottant’anni fa moriva a Roma nella clinica Quisisana Antonio Gramsci. Che ne è del suo pensiero, della sua impronta nelle ceneri disperse del Pd e dei partitini sorti alla sua sinistra?

È una domanda pertinente perché quest’anno è il centenario mondiale del comunismo. Ora che l’ultimo stadio del vecchio Pci va in pezzi, sarà il caso di riscrivere in breve la sua parabola sotto il profilo culturale e ideologico.

Tanti sono stati i cambiamenti e le scissioni lungo gli anni ma la vera svolta avvenne quando il partito comunista smise di essere e di sentirsi il centro, il cuore e il motore della sinistra nel nome di Marx e Lenin, e in Italia di Togliatti e Gramsci, e confluì nel più liquido e largo fiume della sinistra globale, cercando di diventare il suo referente politico.

In particolare, il passaggio avvenne con l’alleanza nel nome del progressismo tra i cattolici democratici e i post-comunisti, a cui si aggregarono altri mondi minori, a partire da quel che fu l’azionismo. Un ruolo di cerniera e di battistrada lo svolsero giornali e case editrici, a cominciare dal gruppo L’Espresso-La Repubblica. Dal Pc al pc, nel senso di politically correct.

Il passaggio definitivo avvenne dopo il crollo del sistema politico italiano, la fine della Dc e del Psi, e dunque col passaggio a un sistema bipolare. Ma la vera trasformazione ideologica e culturale aveva preceduto di alcuni anni quell’unione e i suoi simulacri (la Margherita, l’Ulivo).

Era la trasformazione da Partito Comunista a Partito radicale di massa. Ovvero un partito che non  si poneva più nel solco del marxismo-leninismo, del proletariato e della classe operaia, nel primato del lavoro e della lotta di classe e in una redistribuzione egualitaria del reddito; ma un partito neoborghese, radicato nei ceti impiegatizi, nelle minoranze colte, nelle donne progressiste e nelle professioni intellettuali (a cominciare dai docenti), attento ai temi delle libertà individuali, alla minoranze protette e ai nuovi diritti civili che furono del partito radicale.

Tutto questo generò una nuova egemonia culturale: da quella esercitata da Togliatti nel nome di Gramsci che si rivolgeva alla cultura umanistica e ai suoi bastioni accademici e culturali, a quella esercitata dopo il ’68 da una sinistra diffusa che si rivolge a un ambito più esteso, i mass media, le fabbriche dell’opinione pubblica, la tv, il cinema, la musica. Dalla cultura alta alla cultura pop. Di mezzo c’è l’onda dei movimenti cresciuti dal ’68.

Chi è stato il nuovo Gramsci degli ultimi cinquant’anni, il teorico della svolta? È stato un intellettuale versatile e non organico al Pci, anche se “impegnato a sinistra”: Umberto Eco. Fu lui il precursore e l’ideologo di quella svolta: dal comunismo alla cultura di opposizione di sinistra, individuando il target in quella fascia ampia che andava “dai radicali dell’Espresso alla sinistra del Pci”.

Il progetto è ancora gramsciano: portare l’illuminismo alle masse, ma il nuovo illuminismo di Eco è passato dalla civiltà dei consumi e della televisione, dai mezzi di comunicazione pop e dal “superuomo di massa”, dai diritti civili, occupandosi di Mina e Rita Pavone, si è fatto internazionale più che nazional-popolare; e inclusivo, nei confronti di quel filone cattolico – in versione democraticamente corretta –  da cui proviene lo stesso Eco.

L’impianto di valori è in continuità con la storia della sinistra, dal progressismo all’antifascismo che eleva il fascismo a Nemico Eterno (Urfascismus).

Il documento di nascita di quel passaggio lo rintracciamo in un saggio in due puntate che Eco dedica nell’ottobre del ’63 alla sinistra su Rinascita, il settimanale del Pci diretto da Togliatti. È lì in nuce la svolta della sinistra che verrà, quando cadrà la subalternità all’Urss e la sinistra passerà per così dire da l’Unità a la Repubblica, ovvero dal Pci al mondo radical de l’Espresso.

Eco pose il problema di modernizzare la sinistra, di inglobare le sinistre sfuse e i cattolici progressisti, di aprirsi alle culture pop ibridando ideologie e costumi, di guardare più all’America che alla Russia e di sposare quelle campagne che poi saranno tradotte in antifascismo, antirazzismo e antisessismo.

C’è un pamphlet su Umberto Eco e il Pci che ripercorre la storia di quel saggio del ’63 (autori Claudio e Giandomenico Capris, ed. Imprimatur). Eco non esita a definire gramsciana la sua lettura del contemporaneo nel Superuomo di massa. E gramsciana resta la sua idea del ruolo di guida degli intellettuali in questo processo e nella critica sociale.

Non intellettuali organici a un partito ma un partito emanazione di quel clero di intellettuali. “È fuori di dubbio, scrive Eco in quel saggio su Rinascita – che la diffusione dei mezzi di massa vada analizzata e giudicata dal punto di vista ideologico”.  Non solo giudicata ma anche guidata, come ha poi dimostrato il politically correct…

Eco esorta a passare dal marxismo alla semiotica per leggere il mondo d’oggi come una mitologia (il suo riferimento è ai Miti d’oggi di Roland Barthes, uscito poco prima del suo saggio). E, a differenza della sinistra contestatrice, che usa la scuola di Francoforte per criticare la modernità, la lettura di Eco è invece quella di entrare nel mondo pop, non disdegnare le nuove forme di cultura contemporanea e conquistarle.

Come poi di fatto avvenne; perché l’egemonia culturale impostata da Togliatti era ancora un sogno umanistico che si fermava ai piani alti della cultura e dell’arte, mentre l’egemonia culturale venuta fuori dopo il ’68 è più pervasiva e investe il cinema, i giornali, la tv, lo spettacolo. Ecco la fenomenologia di Mike Bongiorno.

Ecco la nascita de la Repubblica da una costola de L’Espresso, di cui Eco resta il nume tutelare.

Alla luce di questa parabola forse non è uno scherzo del destino ma una coerente conseguenza che la sinistra sia passata da Berlinguer a Renzi, tramite Veltroni, berlingueriano e kennediano, anello di congiunzione tra le due esperienze.

Così i dissidenti del Pd, orfani di Berlinguer o di Togliatti, cantano Bandiera rossa; e Matteo Renzi, orfano di Obama e Fonzie, si aggrappa ai Macron di turno.

MV, Il Tempo 27 aprile 2017

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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