Svelare la morte per capire e amare la vita
Chi legge Fausto Gianfranceschi si riconcilia con la realtà della vita, della morte, del corpo e della nascita. Con i suoi scritti riscopre l’amicizia col mondo, accetta i limiti e i confini della vita, guarda in faccia la morte, si stupisce per la nascita e riporta la mente dentro il corpo, l’anima dentro il mondo. Lo spirito s’incarna. A quei temi, Fausto ha dedicato una trilogia, Svelare la morte, L’amore paterno e il Senso del corpo. Tre opere dentro una più vasta produzione letteraria, di romanziere, polemista, e da ultimo di aforista. Si potrebbe definire realismo spirituale la sua ispirazione, che lo accomuna ad alcune tra le più belle intelligenze del suo tempo, e del suo “Tempo”, nel senso della pagina culturale del quotidiano che Fausto ha curato per anni. Cristina Campo, Alfredo Cattabiani, Gianfranco Morra, Augusto Del Noce, Rosario Assunto, Orsola Nemi, Fausto Belfiori e potrei a lungo continuare, sicuramente dimenticando qualcuno.
Molte opere di Fausto nascono dalla vita e dalle tragedie della vita: Svelare la morte rielabora il doloroso lutto per la morte di suo figlio, Giovanni, ancora ragazzo. Un altro libro poi dedicherà a sua figlia Federica, scomparsa prematuramente. E un altro, l’Amore paterno, nascerà dopo che era nata sua figlia Michela. “Bisogna non avere bambini per non credere nell’anima. Un bambino che si anima, quale mistero” scrive Fausto in queste pagine di Svelare la morte.
Una linea d’amore accompagna i suoi pensieri, dal principio alla fine; un amore ricambiato, intenso, lucente, privo di retorica, verso i suoi figli e verso sua moglie Rosetta. Del resto, tutta l’opera di Gianfranceschi è un elogio della famiglia e dell’amore radicato e duraturo, amore eterno e paterno, amore coniugale e famigliare. Si avverte anche il suo amore per Roma, città eterna e città natale. La sua romanità cattolica e rinascimentale, classica e barocca, antica e reale, nella fierezza e nell’ironia, nello spirito combattivo e di credente. Fausto Gianfranceschi fu un maestro di carattere; la fierezza stoica, romana e cristiana con cui ha affrontato la lunga lotta con la malattia, i lutti e il dolore. Vita come milizia, a viso aperto. In Svelare la morte, Gianfranceschi scrive che “il divieto di pensare la fine ha ucciso i fini. Rimangono unicamente i mezzi”. Sorge una specie di totalitarismo della morte: non più un trapasso ma una definitiva totale vanificazione. Peggio che inesorabile, scrive, la morte si fa incomprensibile. Assurda, da fuggire. Invece la contemplazione della morte favorisce un giusto rapporto con le cose della vita. “E’ un vitale antidoto contro l’irrealtà”.
Ho conosciuto Gianfranceschi quando era poco più di un ragazzo e vivevo ancora in Puglia. Venni a Roma a un convegno della Fondazione Volpe, avevo pubblicato su La Torre una recensione a Conversazioni con la morte di Giovanni Testori, e Fausto volle conoscermi e mi disse cose che mi riempirono di gioia. Anche perché provenivano da un autore che già leggevo con grande interesse. Mi annunciò che aveva intenzione di scrivere un libro sullo stesso tema. L’anno dopo uscì Svelare la morte, e io lo recensì sulla stessa rivista di Giovanni Volpe.
Nacque un’amicizia prima epistolare poi dal vivo; col tempo lo coinvolsi nella riviste che diressi e fondai. Lui fu un attento critico dei miei libri, mi scriveva lunghe e argomentate lettere per sottolineare temi, alternare elogi a qualche osservazione critica. Scrissi di lui alla sua morte, introdussi un suo libro postumo; e la mia opera Imperdonabili, dedicata a cento ritratti di autori “sconvenienti” si conclude proprio con lui.
Fu una festa d’addio quella che facemmo a Fausto Gianfranceschi, senza dirlo a nessuno, nemmeno tra noi, poco prima che morisse nell’inverno del 2012. Si presentava un libro d’arte curato da sua figlia Michela e ci ritrovammo in tanti suoi amici nella Biblioteca Casanatense per rivederlo e per salutarlo. Ci avevano detto che probabilmente sarebbe stata l’ultima sua apparizione pubblica, l’ultima volta che avremmo visto Fausto, e noi che lo sapevamo in lotta col male ormai da tanti anni, fingevamo di non crederci. Ma lasciammo cadere altri impegni, e con scuse improbabili, ci presentammo alla serata con quel sottinteso d’addio dissimulato dal piacere dell’evento. Fausto faceva gli onori di casa, con l’affabile fierezza che lo distingueva, insieme a sua moglie e sua figlia, benché visibilmente provato. Sua moglie Rosetta mi fece sedere accanto a lui, mentre ascoltava la sua figlia più piccola, a cui aveva dedicato quel dolcissimo libro di padre maturo, quando lei era bambina. Provai a condividere in quel momento i suoi pensieri di padre, la sua implicita cerimonia d’addio, il piacere di ascoltare sua figlia che illustrava con talento e passione l’opera. Alla fine lo salutai come si salutano gli amici a cui vuoi bene, evitando ogni solennità ma ben sapendo che difficilmente ci saremmo rivisti. Con fretta apparente mi congedai da lui, simulando la routine di un saluto che temevo invece definitivo.
Poi perse la sua antica battaglia contro la morte, che alla fine si svelò definitivamente anche a lui. Restano vive le opere, come Svelare la morte, che ci induce a non fuggire, non rimuovere, non tacciare la voce né coprire lo sguardo, ma guardare in faccia alla morte. Per amore della vita, transitoria ed eterna.
(Prefazione alla nuova edizione di Svelare la morte, Cinabro edizioni)