C’era una volta An e il suo regista

Pinuccio Tatarella è stato il motore di Alleanza Nazionale, mentre Fini ne era la carrozzeria. Oggi, a vent’anni dalla sua morte possiamo dire che non ha lasciato eredi politici. Lo confermano il libro uscito in sua memoria curato dalla Fondazione Tatarella, edito da Giubilei Regnani e presentato con una citazione di Massimo d’Alema e il convegno a lui oggi dedicato con Gianni Letta, Roberto Maroni e Luciano Violante, senza dialoganti di destra. E con la presenza annunciata di Mattarella, che fa rima baciata con Tatarella, anche nella sua versione latina, il Mattarellum e il Tatarellum, le due leggi elettorali degli anni ’90.

Alleanza nazionale cominciò a perdersi e a perdere peso politico dopo la sua prematura scomparsa e oscillò tra la fotocopia sbiadita di Forza Italia e l’antagonismo rancoroso verso Berlusconi, senza una linea e un peso effettivo sul governo e la politica.

Era ancora il Novecento, non c’era l’euro coi suoi vincoli europei, in Italia era in vigore il sistema bipolare, poi saltato; la sua idea di coalizzare le forze di centro-destra e poi di andare “oltre il polo”, all’epoca plausibile, non trova riscontro nell’epoca dei populismi e dei sovranismi. Nessuno dei protagonisti della sua epoca è oggi in auge, resta l’ologramma di Berlusconi, la sua mummia, ma non c’è nessun altro, né Fini né Bossi, né Casini o Buttiglione né D’Alema, e nemmeno Veltroni, Di Pietro o Bertinotti. E chi li ha sostituiti sulla scena politica non ha ereditato nulla dai suoi predecessori. Spariti destra e sinistra, centro e forze cattoliche, il mondo è cambiato.

Il tratto peculiare di Tatarella fu l’intelligenza politica e il suo realismo o cinismo pragmatico, un misto di duttilità e spregiudicatezza nel perseguire gli obiettivi. Forte influenza esercitò non solo nel suo partito, ma nella coalizione e anche nel confronto con gli avversari e con le istituzioni. La sua capacità di mediazione gli valse non a caso la fama di “ministro dell’armonia”, come egli stesso del resto amava definirsi. Fu impiccato a una frase, quando evocò “i poteri forti” da vicepremier. Ma lui era il più lontano dai teoremi complottisti e il più incline a trattare coi poteri forti. Oggi chi più si avvicina al suo ruolo è il leghista Giancarlo Giorgetti.

Tatarella concepiva la politica secondo la prospettiva di efficacia più che secondo la testimonianza di valori. Benché missino, Tatarella non coltivava nostalgie romantiche e ideali. Fu estraneo ai conflitti tra gentiliani ed evoliani, tra cattolici tradizionalisti e neopagani, repubblicani e neoborbonici che attraversavano la destra. Credeva alla denuncia giornalistica, al dossier, all’azione pratica quotidiana, ai risultati elettorali e al potere reale d’influenza sulle decisioni. Fu anticomunista, nazionale e popolare, lontano dall’anima social-rivoluzionaria che serpeggiava nel vecchio Msi. Tuttavia era passionale anche nell’oratoria e non disprezzava le idee, semmai il loro irrigidimento integralista e la loro riduzione ideologica.

Tatarella aveva un forte e arcaico senso dell’appartenenza, dei legami personali e tribali, territoriali, famigliari e caratteriali. Possessivo nelle amicizie e avvolgente, sanguigno e tattile, a volte allusivo, con cadute nel mutismo. Il Peron di Cerignola, diviso tra l’eredità di Araldo di Crollalanza e il temperamento del suo compaesano Peppino Di Vittorio. In lui il lato umano eccedeva su quello partitico, il calore rusticano dei rapporti diretti dominava sulla freddezza dei ragionamenti. Fu un Grande Mediatore, come il suo interfaccia in versione gentile e curiale, Gianni Letta; mai un pelo fuori posto, l’opposto di Pinuccio. Letta rispondeva a un sovrano, Re Silvio; Tatarella invece usava Fini come megafono.

Allegro fantasista della politica, Pinuccio ondeggiava tra furbizia e moti impulsivi. Mai misurato, eccedeva in vendette e in slanci. Era politicamente ma non caratterialmente un moderato. Prendeva i suoi avversari come i suoi amici per il loro punto debole, capiva qual era il punto che avevano più a cuore e cercava su quello di stabilire un vantaggioso do ut des. La sua politica era fatta d’impulsi e arabeschi; mai vista insieme tanta astuzia levantina unita a tanta irruenza. Così lo ricordai nel mio libro Ritorno al Sud.

Tatarella raccoglieva e archiviava, dopo averli strappati, anzi sbranati, dai giornali, editoriali e pagine culturali. Si era iscritto ad An vent’anni prima che An nascesse, in pieno Msi neofascista. Ma non s’imbarcò nella scissione di Democrazia Nazionale, pur condividendo i presupposti, perché aveva il senso della realtà, dei tempi e del consenso. Alla rivoluzione preferiva la concertazione e all’ordine il disordine; non civile, ma personale. Almirante lo considerava insidioso. Una volta li incontrai insieme, ma erano in due film diversi.

Con chi sarebbe stato oggi? Chissà, ma An con lui vivente avrebbe avuto un altro corso. Se non fosse riuscito a pilotare Fini, magari lo avrebbe avversato; ambedue le cose furono invece impossibili ai colonnelli di An.

Tatarella non era un personaggio televisivo o da vetrina, ma nei rapporti personali era carico di vitalità e di umanità. Non comunicatore, ma comunicativo; il contrario di Fini. Lui capiva, l’altro diceva.

MV, La Verità 8 febbraio 2019

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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