Un ’68 da rovesciare
Il Sessantotto è una parola che racchiude storie diverse e significati divergenti, ma designa alla fine un cambio di mentalità.
Il ’68 fallì come rivoluzione politica ed economica perché gli assetti di potere e il sistema capitalistico restarono saldamente in sella, in Italia e nel mondo, nonostante la contestazione globale. Ma il ’68 riuscì nel costume, nel sesso e nel linguaggio, minò la famiglia e il rapporto tra le generazioni, la scuola e l’università.
La società entrata nel ’68 aveva molti vizi e arcaismi, molte ipocrisie e contraddizioni; ma quella che ne uscì, soprattutto negli ambiti citati, fu peggio. L’errore d’origine fu la scissione tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra risultati e meriti; il predominio assoluto dei desideri sulla realtà e i suoi limiti naturali.
La libertà nel ’68 significò liberazione, sprigionamento, sconfinamento.
Liberazione del soggetto, della sessualità repressa, dei popoli, degli istinti e degli impulsi incatenati. Liberazione dallo Stato e dalla norma, dalla famiglia e dai suoi obblighi e rituali, liberazione dai vincoli di ogni tipo, elogio dell’infedeltà e del camaleontismo come mutazione permanente.
È la passione per la dismisura, la libertà come vietato vietare, desiderio permanente di creare e autocrearsi, senza limiti.
Ma dietro la promessa della liberazione da tutto, dietro la marcusiana denuncia della tolleranza repressiva (quel Marcuse che aveva scritto un Saggio sulla liberazione), si celava nel ’68 il suo rovescio arrogante, l’intolleranza permissiva; ossia permissivismo estremo ma guai a chi non accetta i nuovi comandamenti della liberazione e i comportamenti derivati.
Quel fondo d’intolleranza dette poi vita all’estremismo politico, alla violenza del radicalismo, alla giustificazione di regimi come quello di Mao e di Pol Pot, che nel nome della rivoluzione culturale e della liberazione da ogni passato, compirono stermini che nemmeno Hitler e Stalin insieme hanno compiuto.
Il ’68 non coincise con l’estremismo, dette vita anche al pacifismo verde, al femminismo, alla diffusione della droga. Quelle furono però uscite secondarie. L’esito principale del ’68 fu una spinta radicale alla liberazione di massa dei desideri e dei soggetti. Il suo effetto collaterale fu il narcisismo individualistico di massa.
Al di là del massimalismo e della passione per le rivoluzioni esotiche, in America latina, in Cina e in Vietnam, il ’68 nacque e morì come rivoluzione intraborghese e non antiborghese; una rivoluzione interna alla borghesia che usò la contestazione per liberarsi dei suoi residui valori cristiani, morali e tradizionali.
In questa chiave, il ’68 sgombrò la società degli ultimi argini che si opponevano al trionfo assoluto del capitalismo globale e dei suoi stili di vita: gli argini rappresentati dai valori tradizionali, dalla famiglia, dal legame nazionale, dal senso religioso.
Il movimento sessantottino riteneva che la tradizione facesse parte di una santa alleanza della reazione guidata dal capitale: invece la tradizione era l’ultimo baluardo per impedire che i cittadini, i credenti, i compatrioti, i genitori, fossero ridotti solo a consumatori, pedine intercambiabili, atomi senza identità.
Il capitalismo trionfò e assunse come suoi agenti e funzionari i sessantottini di ieri. In fondo il racconto odierno del ’68 come una radicale modernizzazione significa proprio questo: una società radicale di massa, concepita su valori radicali e impiantata nel mercato globale.
La famiglia è stato l’ambito in cui il ’68 ha prodotto più devastazioni.
Il padre inteso come auctoritas, come pater familias, ma anche come Santo Padre, come patria – cioè terra dei padri – come docente, veniva simbolicamente soppresso. Il 68 – scrissi in Rovesciare il ’68 – fu il movimento del parricidio gioioso che portò a compimento la tendenza parricida insita nella modernità e più volte manifestatasi nel novecento.
Ma la società senza padre del ’68 produsse poi la nostra società senza figli, con una denatalità record e un’anoressia di futuro. Il sessantottino si auto-percepì come un adolescente permanente che non si proietta in nessun figlio perché è lui eterno Peter Pan.
L’emancipazione femminile ha prodotto innegabili frutti e riconosciuto diritti fondamentali alle donne; ma con la stessa onestà si deve riconoscere che tutto questo è avvenuto a scapito della maternità, della coesione famigliare e dell’equilibrio fondato sulla diversità dei ruoli. Grandi conquiste, gravi perdite.
Alla fine l’ala modernizzatrice del ’68 vinse su quella ideologica e rivoluzionaria.
Dopo il ’68 nessun movimento rivoluzionario andò al potere in Occidente; in compenso si avviò quel percorso – divorzio, aborto, depenalizzazione di reati legati alla droga e altri, destrutturazione della famiglia, unioni omosessuali, ecc.
Ha vinto l’anima radical del ’68. La stessa sinistra dopo il ’68 non rappresenta più le classi povere e oppresse, i proletari, gli operai e le borgate, ma concentra le sue battaglie sulle unioni civili e gay, eutanasia, femminicidio, uteri in affitto. La rivoluzione sociale si è fatta rivoluzione sessuale. L’anticapitalismo è stato sostituito dall’antifascismo for ever. Il tema dell’accoglienza deriva più dalle matrici comuniste e cattoliche che dal ’68.
A Est, invece, la rivolta giovanile fu concepita nel segno del binomio patria e libertà, ovvero indipendenza nazionale, sovranità politica e libera espressione del dissenso. Il gesto eroico di Jan Palach come la denuncia di Solzenicyn e di Woityla produssero quel movimento popolare che poi favorì il crollo del comunismo. E’ difficile stabilire se quel movimento dai presupposti così diversi vada ascritto o meno nel ’68.
Alla fine, l’eredità politica e ideologica maggiore del ’68 è il politically correct, il nuovo “bigottismo progressista”, l’ipocrisia del linguaggio corretto. Una rivoluzione finita nel rococò.
MV, Il Mattino di Padova 24 febbraio 2018