Che succede al Pd?
Intervista per Quaderni radicali a cura di Geppi Rippa
Abbiamo intitolato questo fascicolo di «Quaderni Radicali» “Politica senza idee”, che riguarda certamente la situazione italiana ma investe pure il quadro europeo e internazionale. Da analista politico, senza pregiudizi ideologici, che idea ti sei fatta del contesto politico nel quale ci troviamo oggi a vivere?
Confermo l’immagine di una politica impoverita di idee e di una visione più generale del mondo e delle cose da realizzare e immiserita nella qualità media delle sue classi dirigenti. Credo, tuttavia, che ci sia un motivo strutturale da indagare nel profondo: la politica è diventata una periferia subalterna dell’impero. Nel senso che le grandi decisioni non passano più dalla politica, ma passano da altri soggetti: da soggetti sovranazionali, che spesso non hanno una caratterizzazione politica e né una legittimazione politica; passa dal predominio della finanza e del mercato, uniche entità globali ed universali che in qualche modo decidono le sorti dei popoli, passa dalla tecnocrazia. La politica si trova così ad amministrare soltanto dei segmenti reali di potere e di conseguenza diventa una realtà subalterna rispetto alle altre.
Per rendere più chiaro questo concetto ricorro all’immagine per cui il potere è come una matrioska e la politica è oggi la bambola più piccola, perché ci sono altre bambole più grandi che la avvolgono e la contengono: da un verso i grandi poteri istituzionali, gli assetti che precedono la politica, la grande burocrazia e poi – nel caso specifico europeo ed occidentale – le direttive dell’UE a cui ci dobbiamo attenere, le corti supreme e le magistrature, i paradigmi finanziari entro cui dobbiamo muoverci, le linee maestre della NATO oltre che le realtà sovranazionali dell’economia e della finanza private, i grandi colossi che decidono le sorti del mondo.
Di conseguenza, rispetto a questi scenari, è un effetto quasi obbligato la politica a corto di idee. Innanzi tutto perché è una politica “corta” nel senso temporale della parola, che amministra il presente e non ha più legami né con il passato e né con il futuro, per cui non riesce ad avere quel respiro progettuale e, al tempo stesso, quella tradizione storica alle spalle, quel nucleo di eredità che in qualche modo rappresentava la nobiltà araldica della politica passata, il terreno su cui poggiare. Una politica immiserita in questo modo gestisce solo un frammento dell’esistente. Al di là delle motivazioni che possiamo ravvisare su una forza politica, anziché per un’altra, siamo di fronte a questo fenomeno più generale e trasversale; e le conseguenze che ne sono derivate sono state da una parte il trionfo dell’anti-politica, nella forma del populismo; dall’altra parte, il trionfo dell’anti-politica nella forma della tecnocrazia. Tra populismo e tecnocrazia la politica è stata schiacciata in questi anni ed ha subito una forte mutilazione di dignità e sovranità.
Questo è lo scenario generale: resta il fatto che il quadro della globalizzazione ha in sé alcune dinamiche specifiche, che troviamo rappresentate nel comparto interno o europeo e che incidono sul fatto che la politica ha perso la capacità di essere a un tempo analisi e valutazione, come pure quella di proiettare delle prospettive entro le quali muoversi. Ma vorrei considerare con te, da una visuale diversa rispetto ai protagonisti afferenti all’area politica del PD che abbiamo interpellato, i caratteri della crisi del Partito Democratico che si predispone a un congresso abbastanza anomalo, dal momento che prende davanti a sé un tempo piuttosto lungo. Guardando al dibattito pre-congressuale siamo di fronte alla fotografia dell’assenza di idee in quanto tali. Come sta affrontando la crisi e quali sono i riflessi su una Destra in fase evolutiva, che mira a rifornire quelle risposte che il PD non sembra per ora in grado di dare?
I motivi della crisi generale ci sono tutti anche nella vicenda del PD. Vi si aggiungono dei motivi specifici. L’elemento che risalta di più, perché è il più evidente anche se meno profondo sul piano dell’analisi politica, è che in un momento in cui la leadership personale è molto forte, in cui il “partito personale” è il cardine in cui ruotano i movimenti politici, nel PD non emergono personalità forti, riconosciute da tutti: un leader che possa identificare un’area e unificare le diverse anime del partito. Considerando i tre-quattro pretendenti alla segreteria si ha questa precisa percezione. Ad essere candidati sono piuttosto “generi”, che non personaggi. Il genere che rappresenta il territorio e gli enti locali; il genere che rappresenta le nuove soggettività, i giovani e la nuova politica; il genere che rappresenta la tradizione politico-culturale della sinistra e così via.
Il tempo del leader, non dico quello di Togliatti o di Berlinguer, ma anche quelli più recenti come D’Alema o Veltroni, sembra chiuso. O sono leader che provengono da tradizioni diverse, quali personaggi diventati un riferimento come Prodi e lo stesso Renzi. Al momento non c’è un leader che sia espressione di quel mondo e che rappresenti il cammino di quel mondo verso una nuova cifra.
C’è poi un altro elemento, che riguarda per dir così il terreno della sinistra. Il terreno tradizionale della sinistra, che avevamo conosciuto lungo tutto il Novecento, era quello di rappresentare il proletariato e gli sfruttati, interpretati come antagonisti collettivi rispetto al capitalismo e al suo sistema economico. Da alcuni anni, la sinistra del PD ha adottato delle “sostituzioni” importanti, che la hanno non solo snaturata rispetto alla sua tradizione ma che hanno indebolito il suo radicamento nel consenso popolare e territoriale. I grandi temi che riguardavano il proletariato sono stati sostituiti dalla sensibilità verso le nuove soggettività, i cosiddetti diritti civili, le coppie omosessuali che costituivano un’imitazione tardiva, e anche un po’ goffa, delle battaglie fatte in passato dal Partito Radicale in difesa delle minoranze a torto o ragione ritenute discriminate: ciò ha dato luogo a un tentativo di fondare un partito radicale di massa, sempre meno partito e sempre meno di massa, con risultati abbastanza paradossali.
In secondo luogo, i grandi temi dello sfruttamento, dell’oppressione operaia e di tutti coloro che vivono a disagio nel nostro Paese si è spostato in una visione mondiale imperniandosi sui migranti. Col risultato paradossale di un partito neoborghesie, un partito-ztl, come si suol dire, che però prende a cuore la causa del proletariato più remoto, quello che viene da mondi lontani. I migranti sono diventati il nuovo punto di riferimento, anche retorico e questo – da un punto di vista ideologico – è ineccepibile, perché in effetti si possono considerare il proletariato a livello mondiale. Ma dal punto di vista politico segnano il prevalere di un criterio di solidarietà astratta, rispetto alla solidarietà più concreta e vicina, la solidarietà della prossimità, riferita a figure sociali che vivono nella nostra società: si ama il remoto, colui che viene da lontano, piuttosto che rappresentare gli interessi reali dei disagiati più vicini, di coloro che rappresentano il malessere delle periferie e la povertà del nostro Paese.
Infine, la terza sostituzione importante ha riguardato la battaglia contro il capitalismo, cui è subentrato, come alibi e deviazione, il ritorno – artificioso e non reale, del tutto anacronistico – dell’anti-fascismo. L’anti-fascismo sostituisce l’anti-capitalismo: non si tratta più di difendere il popolo dallo sfruttamento capitalistico, o comunque da un modello economico antagonistico rispetto alle antiche battaglie socialiste e alla questione dei poveri, ma rappresenta una battaglia contro un’entità astratta venuta dal passato – un fascismo eterno, l’Ur-fascismo di cui parlava Umberto Eco – che, assurta a categoria metafisica di un fascismo male assoluto che torna sempre, nonostante sia morto e sepolto da ottant’anni, diventa in realtà un comodo alibi per fuoruscire dall’antagonismo col sistema capitalista e per negare all’avversario ogni legittimità politica, ideale e costituzionale. In concreto, viene sostituito il “nemico” reale e presente, un tempo rappresentato dallo sfruttamento capitalistico con questa figura retorica né reale né presente, rappresentata dal fascista, con tutto ciò che ne consegue.
Queste sostituzioni hanno ulteriormente straniato la sinistra dal tessuto reale e popolare del nostro Paese e suo proprio. Dunque, in sintesi, se dovessi semplificare l’analisi di questa difficoltà enorme del Partito Democratico, indicherei da una parte l’assenza di una leadership autorevole e riconosciuta e, dall’altra parte, queste sostituzioni che hanno spiazzato e indebolito il rapporto tra cittadini e PD, tra Territorio e Partito, coi risultati che oggi registriamo.
Pur da un versante differente, mi sento di condividere queste considerazioni. Allo stato attuale delle cose il dibattito dentro il PD si articola nello spazio compreso tra una “sinistra più sinistra”, che per i motivi descritti è un tentativo abbastanza sfumato in termini di efficacia perché vuol essere partito dei poveri ma anche dei ricchi “per bene”, verrebbe da dire, e dall’altra parte una forza improntata dalla post-ideologia del politicamente corretto, in una chiave oltranzista che manca di un’analisi corretta nel definire una prospettiva che abbia una centralità nei diritti della persona. Emergono poi altri fattori abbastanza inquietanti: in assenza di una capacità di visione, rimaniamo dentro la mera politica delle alleanze, ancorata alla raccolta di consenso alle elezioni, sulle quali gravano non pochi fattori di disinformazione. Tale disposizione prevalente guarda soprattutto al Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, che spinge a muovere molte perplessità anche in termini di diritti e garanzie. Qui siamo di fronte ai caratteri propri dell’assenza dello Stato di diritto, per cui ti chiedo se ritieni che questa prospettiva di convergenza coi 5Stelle possa offrire realmente uno sbocco al PD, oppure ne accentua la sua crisi?
Il tentativo nasce da un precedente storico che è l’Ulivo, cioè il tentativo di creare un cartello elettorale tra culture politiche diverse che possa raggruppare un arco di forze in una visione bipolare, se non addirittura bipartitica, dove si coalizzano tutti coloro che sono contrari alla Destra raffigurata come reazionaria, conservatrice, fascista e così via. È il tentativo di unire forze diverse: un tentativo che si è fatto ancora più drammaticamente vivo negli ultimi tempi, perché sono ormai diversi anni che le competizioni politiche sono negative come esito per il PD. Esso non riesce più a essere un riferimento come partito di maggioranza: l’ultima esperienza positiva, dal punto di vista meramente numerico, è stata quella del renzismo. Ma Renzi è stato espulso come un corpo estraneo rispetto alla sinistra, una specie di deriva “bonapartista” e para-craxiana. Se si vuole risalire a esperienze di successo bisogna andare o appunto a quella dell’Ulivo, che per lo meno se la batteva con il Centrodestra e il Popolo delle Libertà in termini numerici, anche se poi scontava l’eterogeneità delle forze che lo sostenevano; o addirittura a Berlinguer e al successo del Pci degli anni ’70 e ’80. Ci si è dunque accorti di questa impossibilità di riuscire a mettere insieme una maggioranza nel Paese e così si è accettata una legge che perverte l’esito elettorale delle competizioni, fino a diventare quasi uno schema: quando si vota il popolo esprime delle volontà e delle indicazioni che poi per una serie di alchimie, difficoltà e incapacità di gestire le situazioni e gli equilibri che ne conseguono, si va a finire alla formazione di governi diversi in cui – puntualmente il PD diventa partito egemone, partito-establishment. Accade così che la sconfitta nelle urne si traduce poi in una co-gestione del potere, com’è successo con l’ultimo governo Draghi, come in precedenza con Conte e i grillini.
La consapevolezza di non riuscire a conquistare la maggioranza nelle urne, genera così il tentativo di cercare alleanze. Il primo tentativo si è rivolto verso il centro-sinistra di Calenda-Renzi e, dall’altra parte, con i grillini di Conte. Tuttavia si sono accorti sulla loro pelle, che non è possibile tenere insieme le due forze, che sono incompatibili nell’arco di un’alleanza. E agli stessi potenziali alleati non conviene l’alleanza in cui si è fagocitati e subalterni rispetto al Pd. Ma soprattutto non si può pretendere di averli alleati ambedue, insieme. Di conseguenza il Pd deve optare o per l’una, o per l’altra. E questo spiega i fallimenti alternati dei due tentativi verso Calenda e verso Conte. La mia impressione è che alla fine optino per il Movimento 5Stelle, non foss’altro perché i numeri sono più significativi e perché il M5S rappresenta la variante populista dell’antica sinistra, dove il proletariato è sostituito per così dire dal “plebeismo” della lotta per conservare il reddito di cittadinanza, soprattutto al Sud.
È un’alleanza molto fragile, estremamente pericolosa per il PD: innanzi tutto, perché si tratta di entrare in una logica estranea al PD, una deriva demagogica e tribunizia, fondata su una forma di populismo anti-politico e sulla rappresentanza di interessi che non sono interessi generali, ma che configurano una specie di voto clientelare di scambio sul reddito di cittadinanza. In questo quadro affiorano tutte le “ambasce” della sinistra, perché allearsi con Giuseppe Conte, che peraltro ha mostrato d’essere totalmente neutro e intercambiabile rispetto a valori, principi, collocazioni – in pratica uno Zelig della politica, che assume le forme secondo il momento, secondo le circostanze e le convenienze del momento, può essere filo-americano o anti-americano, filo-russo o anti-russo, può diventare moderato rispetto al movimentismo oppure leader dei disoccupati organizzati, si finge ora Kennedy ora Masaniello. Con queste oscillazioni eccessive, dovute soltanto alla logica che produce maggiore profitto politico e personale, la situazione si presenta estremamente ingovernabile e soprattutto inaffidabile per chi cerca un alleato con cui proporsi come alternativa di governo.
Il cammino difficile del Partito Democratico passa anche da questo, dal tentativo anche goffo di allearsi con il Movimento 5 Stelle nella segreta speranza di poterlo prosciugare e sottomettere. Viceversa, il partito di Conte non ha alcun interesse all’alleanza con il PD, perché si è visto come ogni volta che si allea con altre forze, perde parte della sua forza specifica e del suo consenso. È preferibile amministrare i voti in dissenso rispetto al sistema dei partiti e delle alleanze, piuttosto che il contrario. Sarebbe un’alleanza molto problematica e precaria, priva di prospettive politiche e di respiro, per cui il ripensamento radicale su questa ricerca affannosa di alleanze con movimenti populisti dovrà rivelarsi quasi obbligato. Da qui il vicolo cieco in cui si è cacciato il Pd, a corto di idee ma anche di strategie.
Nel vizio di fondo che risiede nella nascita stessa del PD, dovuta alla fusione tra due oligarchie di partito quali la sinistra democristiana e quella post-comunista, in questo apparente tentativo di allargare l’arco di forze progressiste ma in realtà finalizzato all’esclusione di socialisti, laici, liberali, radicali e libertari, si definiva un obiettivo molto chiaro: quello di reiterare un blocco di potere, che in realtà non esiste più anche sul piano sociale nel Paese. La crisi della sinistra nel PD si deve al non aver affrontato quella che, da tempo, indichiamo sulla nostra rivista come la “questione liberale”. Paradossalmente, il centrodestra sotto la guida della Meloni, per quanto non faccia affermazioni in questo senso, dimostra maggiore elasticità e si muove assorbendo alcuni caratteri propri che noi definiamo nella generica rappresentazione di “questione liberale”. Al contrario, il limite del PD sta proprio nelle sue ambiguità legate alla sua politique d’abord tutta concentrata sulle necessità contingenti, che gli impedisce di disegnare un progetto di guida e indirizzo sugli eventi. Secondo te il vizio di nascita del PD ha influenzato lo stato attuale delle cose?
Sicuramente. Credo che l’analisi che faceva Emanuele Macaluso circa la “fusione a freddo” all’origine del partito fosse convincente. Si è trattato in realtà di una svolta oligarchica, prima ancora di parlare del partito radical-chic come si suol dire, del partito della ZTL, bisogna partire da quel peccato d’origine. La svolta è consistita nell’incontro tra due oligarchie, una catto-democratica venuta dall’ala sinistra della Dc, l’altra postcomunista venuta dal Pci e dintorni, che decidono il percorso con un singolare mutamento: da allora in poi, sempre crescendo, il Partito Democratico è diventato il braccio politico degli assetti di potere istituzionali, economici ed europei. È il partito dell’establishment interno e soprattutto internazionale, che rappresenta il vigente regime economico, mediatico, culturale, l’aderenza alle direttive europee, agli assetti internazionali, alla linea filo atlantica, almeno quando oltreoceano comandano i democratici. Questo indubbiamente fa perdere smalto a una risposta politica, rende il Pd un partito di funzionari, di commissari delegati.
C’è poi un altro limite patologico del Pd, non solo dal 2007 ma da quando nacque il Pds e da quando si è profilato questo assetto bipolare in Italia nel 1992-94: il tratto unificante della sinistra è stato l’anti-, l’anti-berlusconismo di ieri e l’anti-destra di oggi. È la rappresentanza di interessi antagonistici rispetto a quelli rappresentati dalla destra. L’antiberlusconismo è stato anzi il ponte di passaggio dall’anticapitalismo all’antifascismo: bene o male l’antagonismo si esercitava verso un “padrone”, un “ricco”, c’era ancora un residuo di anticapitalismo nell’antiberlusconismo. Dopo anche questo ultimo residuo è sparito. Tutto questo, che si traduce storicamente nell’anti-fascismo, produce un impoverimento di strategia. La sinistra aveva due linee davanti a sé, che poteva percorrere: o quella di un adattamento moderno della socialdemocrazia, come modello possibile e come l’abbiamo conosciuta nel resto d’Europa, soprattutto nelle democrazie del nord; oppure, quello di una svolta liberal, nel senso di liberal-progressista di stampo anglosassone, verso cui ci sono stati molti tentativi, non ultimo quello rivolto all’enfasi sui diritti civili. Il primo si è spento, il secondo si è arenato nella difesa di minoranze e nell’insistenza su temi veramente marginali, secondari (tipo la legge Zan).
D’altronde, partendo da una visione oligarchica della politica e rappresentando il partito-istituzione legato agli assetti prestabiliti di potere, non politici ma pre-politici, oligarchici e non democratici, come appunto sono gli assetti economici, burocratici, istituzionali, e assumendo vigore soltanto nella lotta contro il Nemico assoluto, prima anti-berlusconiana, ora anti-destra e anti-fascista, tutto il discorso politico viene meno, soprattutto perché tutto questo non è accompagnato da una visione, una strategia, un progetto per il domani; non c’è il fervore delle idee. C’è soltanto un residuo di presunzione di superiorità antropologica e ideologica rispetto agli altri, fondata sulla tradizione politica di quello che viene chiamato politically correct. Quella ideologia occidentale, di estrazione statunitense ma ormai dilagata in tutta Europa, costituisce alla fine il perno ideologico dell’attuale sinistra. Ed è un’ideologia pienamente completamente sul presente e sui temi e valori presenti, e sulla negazione della realtà, delle identità e della complessità, nel nome di un’ipocrisia militante, un codice artificioso di divieti e omissioni. Credo che il politically correct con i suoi annessi e connessi, costituisca l’ideologia di una minoranza, per giunta una minoranza che un tempo si sarebbe detta neo-borghese, benestante e integrata, piuttosto che l’espressione di un incontro con il popolo italiano, a partire dai suoi ceti più disagiati.
Alla fine l’unica arma che è rimasta, ancora con qualche fondamento a sinistra, è quella della buona amministrazione locale in alcune zone d’Italia, soprattutto al centro-nord. Non a caso si punta molto sull’area emiliana nella scelta dei possibili candidati com’è il caso del governatore Bonaccini ma anche della sua vice e concorrente. Si tenta di radicarsi nella concretezza dell’amministrazione locale per compensare l’assenza di una risposta sul piano delle idee. E della visione politica generale. In ciò consiste il travaglio vissuto dal PD, perché l’alternativa era quella di aspettare che arrivasse un papa straniero, che ci fosse un nuovo Matteo Renzi che, pur essendo estraneo come mentalità al cuore della sinistra e alla sua storia, costituiva una leadership forte, nuova, dinamica, in grado di dare incisività all’azione politica, pur allontanandosi dal nucleo politico e ideologico della sinistra.
Una strada ormai impraticabile: sarebbe paradossale che il PD diventasse una forza trainata da Conte, perché in quel caso perderebbe l’egemonia e imboccherebbe la strada del suo tramonto, senza possibilità di recupero per il futuro. È un momento assai delicato per il PD, e non credo che si concluderà con il travaglio congressuale ma dovrà passare da ulteriori tappe e ulteriori strappi nel corso del tempo. E in questo momento, anche l’appiglio al socialismo europeo è venuto a franare, con la vicenda del Qatar. Fase difficile. L’unica consolazione è che i cicli della politica ormai sono sempre più brevi, durano meno di una legislatura…