Malaparte, il Narciso degli estremi

Curzio Malaparte è stato il primo scrittore che io abbia sentito nominare da bambino. Ero troppo piccolo per sapere cosa fosse uno scrittore, ma ne sentiì parlare da una signora stravagante di origine romena, Donna Chizzi, già ballerina di danza classica che aveva sposato un console italiano e poi morì in modo bizzarro come visse.

Si favoleggiava che Donna Chizzi avesse una passione per Curzio Malaparte e lo avesse ospitato nella sua villa al mare, a Bisceglie, proprio dove io stavo ascoltando i discorsi dei grandi su di lui, morto da poco. Donna Chizzi diceva che Malaparte era un affascinante conversatore, un po’ gigione, raccontava storie magnifiche, forse inventate, comunque ingigantite dalla sua fantasia.

Avevo quattro anni e non capii bene cosa fosse uno scrittore e un inviato speciale, forse una specie di cantastorie, un teatrante, un eroe da salotto, chissà; ma aveva già capito che tipo fosse Malaparte.

Un mito. E un mitomane. Così mi parlò di lui, Maria Antonietta Macciocchi, che pubblicò i suoi reportage cinesi; lo conobbe col suo segretario, Alberto Moravia, che poi Malaparte definì un voltagabbana, comunista per opportunismo.

Forse Malaparte fu davvero “la penna più forte del fascismo” come scrisse Gobetti, ma rischiò di diventare la penna più forte dell’antifascismo. Sia durante il regime, sia dopo.

Malaparte non si accontentò mai di recitare un ruolo, oltre che protagonista amò essere antagonista: fu fascista intransigente ma anche frondista e antifascista, fu monarchico badogliano dopo il 25 luglio ma tornò repubblicano dopo, e mentre prendeva la tessera del partito repubblicano chiedeva la tessera al Pci, che lo vide con sospetto. Allora lui era firma di punta di un giornale conservatore, Il Tempo.

Lui arcitaliano finì innamorato della Cina popolare di Mao, dove vide realizzato il suo populismo in versione occhi a mandorla. Rischiò pure di diventar cattolico e credente, lui ammazzapreti e gaudente; scrisse un film a suo modo religioso, Cristo proibito.

Malaparte fu la continuazione di d’Annunzio con ben altri mezzi, come la sua prestanza fisica, negata al mingherlino d’Annunzio che nel fisico somigliava più all’altro suo cognome, Rapagnetta; ma altri mezzi anche nel senso che lui fu inviato e giornalista, anche se a mezzadria con la letteratura. Proverbiale il suo egocentrismo, ai funerali vuol essere il morto, ai matrimoni la sposa, disse di lui Longanesi.

Decisivo fu il suo incontro con Mussolini. Chi era per lui il Duce? Il Grande Camaleonte. La Grande Bestia d’Italia. Il Grande Imbecille. Tre giudizi terribili ma a patto di considerare tre corollari.

Il primo è che Malaparte considerava Mussolini una specie di gigantografia degli italiani, la loro incarnazione più verace, l’ostetrico e il medium che tirava fuori l’Italia più profonda.

Il secondo è che anche quando lo (s)figurava come bestia, imbecille e camaleonte, non rinunciava mai a considerarlo grande. Mussolini giganteggiava sui piccoli imbecilli, le piccole bestie e i piccoli camaleonti trasformisti del suo tempo.

Infine, in Mussolini si rispecchiava anche lui, fino a sentirsi nel romanzo fantapolitico antimussoliniano don Camaleo, il suo allevatore e il suo simulacro. In fondo Malaparte, tra le altre cose, si sentiva un duce mancato. Come d’Annunzio, del resto. E come Marinetti.

Malaparte era la versione letteraria di Mussolini, forse quel che Mussolini avrebbe voluto essere se non avesse avuto il demone della politica e di scrivere la storia anziché la letteratura.

In comune non avevano solo il giornalismo e l’avventura, un passato radicale e una passione rivoluzionaria, ma anche l’istrionismo, la voglia di primeggiare, l’ambizione smisurata e la volontà di rigenerare l’Italia, e poi la guerra e il vitalismo, il culto della virilità e la passione per le donne, i cani e il cinema.

Malaparte fu un dannunziano tardivo, si era perso la belle époque e gli ultimi bagliori dell’ottocento ma come lui mescolò arte, vita e guerra, estetica e interventismo, letteratura e sindacalismo, come d’Annunzio a Fiume. Con lui ebbe in comune pure il liceo in cui studiarono, il Cicognini di Prato.

Muss era il prudenziale e affettuoso diminutivo che la madre di Malaparte usava per riferirsi al Duce e diventò il titolo di una biografia fatta da uno sciame di appunti. L’idea originaria, che risale al 1931, era di scrivere un ritratto del dittatore per l’editore Grasset, durante il suo soggiorno da esule politico in Francia. L’arresto di Malaparte nel ’33, il suo rientro in Italia, ne interruppe la stesura.

Dieci anni dopo, nell’estate decisiva del ’43, Malaparte scrisse Il grande imbecille, che poi finì in appendice a Muss. Il libro fu finito a babbomorto, come si soleva dire dalle sue parti.  Una biografia severa per accreditarsi nell’Italia antifascista ma con qualche sussulto d’affetto, rigurgito dell’antica passione. Che esplose davanti allo scempio di Piazzale Loreto. “Ti voglio bene, perché io voglio bene agli uomini caduti, umiliati”.

Le pagine più intense sono quelle dedicate alla morte di Mussolini e al suo volto nel momento in cui fu ucciso. Un volto che, secondo Malaparte, chi lo uccise non ebbe il coraggio di guardare. Feroce è la descrizione dell’assassino di Mussolini, incontrato a Roma, in Piazza Colonna, uno “dal viso cretino e vile”.

C’è enfasi, invenzione, teatralità nella prosa di Malaparte ma non si può negare l’impareggiabile pathos come quello trasmesso ne La Pelle, lo stile teso e vivido che cattura il lettore.

Le pagine più negative sono riservate a Hitler e al sorgente nazismo. “Si può essere sicuri – scrive Malaparte che nacque chiamandosi Kurt Suckert – che Hitler si accontenterà sempre di far la parte del Figlio? Mussolini non ne è sicuro e fiuta già il pericolo”.

Malaparte rivela che fu Hitler a chiedere a Mussolini di proibire l’edizione italiana di Tecnica di un colpo di stato. Immaginare che un dittatore chieda a un altro di bloccare un libro è forse un’esagerazione egocentrica. Ma questo spiega l’avversione “per fatto personale” di Malaparte verso Hitler già ben prima che si rivelasse quel che poi abbiamo saputo.

Ma c’era in Malaparte quella pulsione antigermanica che in Italia fu di derivazione risorgimentale, espressa poi nella generazione della Grande Guerra, a cui non fu immune Mussolini. Quella generazione sognava ancora Parigi; Vienna e Berlino erano la casa del nemico.

Malaparte riporta un dialogo con Mussolini in cui il Duce definiva il futuro Fhurer “un buffone” che prima o poi sarebbe tornato a fare il pittore. “Non avete notato – malignò il duce allo scrittore – che Hitler ha il viso di un suonatore di flauto?”. Mussolini invece fu davvero un suonatore di violino…Il Duce, secondo Malaparte, vedeva la politica come la continuazione del cinematografo.

Malaparte fu fascista antemarcia e fascista convinto. Anzi fascista trotzkista. “Come dici bene tu – scrisse a Gobetti – io sono un fascista nato”. Del fascismo condivideva la passione nazionale e popolare ma anche gli aspetti facinorosi ed estremi. Se l’Italia fascista fu, come scrisse nella biografia Muss, “una buffonata”, un sublime cialtrone come lui non si trovò a disagio…

Se cercate un arcifascista che cantò il duce, magari con un filo d’ironia come il suo amico Longanesi (“Mussolini ha sempre ragione”), fu lui col suo “Spunta il sole e canta il gallo, o Mussolini monta a cavallo” e non solo. Se cercate un teorico del fascismo radicale, antimoderno, selvatico e antiliberale, Malaparte è la persona giusta.

Ma se cercate uno che fu sbattuto in carcere durante il fascismo per attività antifascista (fu cacciato pure dalla direzione de la Stampa, ma lì c’entrano storie d’amore proibite che irritarono gli Agnelli), che fu confinato ed espulso, e che insultò davvero il duce e molti gerarchi mentre erano al potere, Malaparte è ancora la persona giusta.

E non si tratta di doppiezza ipocrita a fini di vantaggio personale: Malaparte non fingeva né quando faceva l’arcifascista né quando faceva l’antifascista. Anzi era arciconvinto dell’una e poi dell’altra cosa. A volte traeva vantaggi, ma a volte danni, dai suoi cambi di gabbana.

Il suo percorso intellettuale e civile ondeggia tra gli opposti: fu arcitaliano verace ma anche ferocemente antitaliano, onorando a fasi alterne il suo spirito mediterraneo e toscano o il suo nome e cognome d’origine tedesca. Basta leggere in che termini spregiativi parla degli italiani in molte sue opere e nei suoi Battibecchi, per rendersene conto.

Fu antimoderno e reazionario con una vena di nostalgia per l’Italia campagnola e strapaesana, come il Selvaggio di Maccari; ma fu pure giacobino e rivoluzionario, europeo e internazionale. Sostenne la Controriforma e il cattolicesimo tradizionale, fino ad elogiare in Mussolini la tempra di un gesuita tridentino e un Ignazio di Loyola, ma fu sostanzialmente anticlericale e pagano, accusando poi il fascismo d’essere stato controriformista (fece sua la critica di Gobetti). Nella biografia il duce viene spregiativamente paragonato al cardinale Ruffo.

Malaparte fu populista e individualista, amando “le plebi” e il nazionalpopolare. Restò sempre un Superuomo dannunziano, con una vena estetica, esibizionista ed erotica che eccedeva sulla tensione ideale, etica e politica. Ossimoro vivente, incarnò la rivoluzione conservatrice: portò agli eccessi i due poli, la rivolta e la restaurazione.

Anche da morto continua a spiazzare. Lui, autore popolare, a volte truculento, è pubblicato oggi dalla raffinata Adelphi; a lui, sconfitto da Pavese al premio Strega, promisero un risarcimento postumo, ma poi il premio alla memoria è saltato tra le polemiche (Del resto se si dessero premi postumi per riparare un’ingiustizia, tutti i premi, a partire dal Nobel, sarebbero assegnati alla memoria).

Malaparte fu come la sua villa a Capri, impervia e favolosa. Non fu fedele alle idee che amò ma alle idee che avversò: infatti fu sempre nemico dei moderati, dei liberali, degli americani, dei protestanti, degli illuministi, dei clericali di tutte le chiese.

Non fu propriamente un trasformista: storicamente il trasformismo coalizza al centro i moderati di destra e quelli di sinistra. Lui invece coltivò gli opposti radicalismi: fu fascista e maoista, difese Gobetti e Dumini per l’assassinio di Matteotti, elogiò Lenin e Farinacci, corteggiò Mussolini e Togliatti, finendo poi tra le braccia di Padre Virginio Rotondi. Amò le scelte estreme e le attraversò con la pelle del camaleonte.

Lasciò il Novecento troppo presto, come Longanesi, morto due mesi dopo di lui (sul letto di morte Malaparte si dolse col suo rivale Montanelli di morire prima di Indro). Ma del Novecento visse e rappresentò alla grande tutte le sue esagerazioni.

MV, Il Tempo 19 luglio 2017

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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