In nome del cognato

In principio fu Giorgio Almirante, alla fine fu Giancarlo Tulliani. L’anello di congiunzione tra i due estremi fu Gianfranco Fini.
È la parabola ingloriosa della destra in Italia dopo quasi mezzo secolo di onorata opposizione e quasi un ventennio di meno onorato potere. Il primo periodo si riassume con la sigla Msi, il secondo con la sigla An.
È quello il ventennio nero di cui la destra postfascista deve vergognarsi.
Ma che c’entra la destra con Tulliani, con la sua vita pacchiana, col suo lusso a sbafo, con le sue pretese e i suoi capricci da cognato dell’Emiro? Cosa c’entra la destra con Dubai, la Cafon Valley dell’Islam globale?
Lui non è figlio della destra, ma è semplicemente cognato. Cognato di colui che la rappresentò da Capo Assoluto per vent’anni, andò a Palazzo Chigi, poi alla Farnesina, quindi a presiedere Montecitorio per poi proseguire da privatista. Quel Cognato che liquidò prima il Msi, poi An, infine la destra tout court.
Eppure c’è un giornale che da tempo difende Fini e non vede, non sente, non dice nulla sui suoi pasticci; dico la Repubblica, che ora vede Tulliani come colui che “assassina la destra di Fini”.
Traduco: Fini stava facendo una destra così bella, così pulita, così normale che piaceva da matti alla sinistra e alla Repubblica, una destra utile perché impegnata a far saltare il governo di centrodestra. Ma a un certo punto, per sbarrargli la strada, gli spararono addosso il giovin Tulliani, anzi di più, i Tullianos’ in blocco – mamma, papà, sorella e fratellino – in confezione magnum, formato famiglia. E così il tapino fu rovinato e la destra tornò quella roba da fogna di cui narra con la bava sul becco la Repubblica.
Che bel raccontino.
Da questa ricostruzione sontuosa manca solo un piccolo elemento: la realtà. La famiglia Tulliani a Fini non gliel’affibbiò Berlusconi, né i Servizi Segreti, né Feltri, Chiocci, Lavitola o chivoletevoi. Fini non sposò a sua insaputa l’ex di Gaucci, la donna che già aveva dato prova del suo “stile” con l’orco di Perugia.
La casa di Montecarlo di proprietà della Fondazione An non arrivò a Tulliani da un sorteggio perché in quel tempo l’emiro onnipotente dei mobili e degli immobili della Fondazione era il Presidente di An, ovvero il sullodato, illustrissimo cognato.
E i soldi che affluirono copiosi a casa Tulliani non arrivarono per la loro attività e non furono nemmeno frutto di rapina a mano armata o sequestro di persona. No, ci arrivarono perché Fini era presidente della Camera e in Parlamento erano state approvate in fretta le norme sulle slot machine.
Saranno i magistrati – mi auguro – a stabilire le effettive responsabilità penali di Fini in tutto questo. Ma le responsabilità morali e politiche sono già evidenti, accertate.
In tutto questo colpisce il mutismo della parte lesa: dico gli ex-dirigenti di Alleanza Nazionale. Non credo che si tratti di complicità, forse è il disagio di essere stati per vent’anni agli ordini di quel signore che oggi si autodefinisce, per salvarsi, “un coglione”.
Però quel silenzio pesa e imbarazza.
Per la cronaca, Almirante non fu mai né fucilatore né liberale, come invece scriveva ieri la Repubblica; fu semplicemente fascista e poi di destra sociale e nazionale, ma non fucilò né fece fucilare nessuno e non si convertì mai a Malagodi e a Einaudi.
Torno alla domanda di partenza: ma che c’entra Tulliani con la destra? Ne ho conosciuti tanti – proprio tanti – giovani di destra che all’età di Tulliani, ma anche molto prima, avevano dato l’anima, e qualcuno pure la vita, per le idee, le passioni, le illusioni, chiamatele come preferite, che in breve definiamo di destra.
Certo, negli ultimi anni il paesaggio della destra era cambiato, e qualcuno alla Tulliani si vedeva anche a destra; magari in veste di assessore, di candidato, di deputato. Il potere, il cinismo, l’imitazione dei vecchi marpioni democristiani e socialisti o dei berluscones, i cattivi esempi di vertice, hanno avuto il loro peso.
Ma tutto si moltiplicò quando si spense quella fiamma che bruciava nel cuore, nel petto, nella testa di quei ragazzi.
Sono cose che succedono quando si perdono le motivazioni e si fa politica solo per carriera, per comandare e magari anche per “fottere”, tanto per citare il famoso proverbio siciliano.
Giancarlo Tulliani però non ha avuto bisogno nemmeno di fingersi di destra, di accaparrarsi un buon collegio o qualche assessorato per avere i soldi, la Ferrari, la Casa a Montecarlo della Fondazione An, i lussi e le bonazze, per pretendere favori di ogni tipo nel nome del suo Cognato.
No, si è limitato a starci accanto, a telefonare e parlare in sua vece e il resto è venuto liscio, col sorriso benedicente del suo cognato. Fini è stato il suo ascensore sociale per passare di colpo da poveraccio a principino, per diventare il berluschino de’ noantri. A Gianfrà che me serve…
E Gianfrà barattò la destra e la patria per il bene supremo dei tulliani.
MV, Il Tempo 6 novembre 2017