Gli Dei, le élite e i popoli

Intervista a cura di Adriano Scianca, uscita su Primato Nazionale (aprile 2019)
1. Nel tuo ultimo libro, Nostalgia degli dei, esponi una serie di immagini, di idee, diremmo quasi di archetipi per ridare senso a un mondo confuso. Declinare questo pensiero alla luce della categoria della “nostalgia” non rischia tuttavia di condurci a un ripiego reazionario?
La nostalgia a cui mi riferisco nel mio libro non è il malinconico sentimento del rimpianto per il passato ma indica tre cose a mio parere fondamentali: la nostalgia dell’Origine, ovvero l’amore per l’Inizio, la necessità di tornare ai fondamenti, di ripartire dagli dei. Poi la nostalgia per il lontano, che è la vera matrice di ogni nostalgia, sia che la distanza riguardi i luoghi lontani (la patria da cui siamo separati) sia che riguardi i tempi lontani (l’infanzia, l’età dell’oro, i cari perduti); la nostalgia è amore per la lontananza, liebe der ferne diceva Nietzsche. Infine, la nostalgia come attesa, aspettativa di futuro, nostalgia dell’avvenire, perché non c’è nostalgia che non nutra anche inconfessata, l’attesa di un evento decisivo nell’avvenire che ci ricongiunga all’Origine. I dieci dei a cui dedico altrettanti capitoli sono Civiltà, Patria, Famiglia, Comunità, Tradizione, Mito, Destino, Anima, Dio e Ritorno. La nostalgia degli dei è nostalgia di trascendenza, di avvenire oltre che di memoria, di trascendenza; non è la solita lamentazione per il tempo perduto. È nostalgia per gli intramontabili; che non sono morti ma si è oscurata la nostra visione. Gli dei non sono morti, dice Pessoa, si è spenta la nostra facoltà di vederli. La nostalgia degli dei non è nostalgia dei morti…
2. Tu, così come del resto la nostra rivista, hai spesso cercato di analizzare senza preconcetti il fenomeno populista o sovranista. Quali siano i suoi meriti e le sue potenzialità, ormai lo sappiamo bene. Col passare del tempo, però, emergono anche i suoi grandi limiti. Credi che il sovranismo possa davvero evolvere in qualcosa di più profondo o resteremo in eterno ai selfie e alle provocazioni social?
Reputo il sovranismo un salto di qualità rispetto al populismo, che è un impulso, una rivolta, ma non è una compiuta risposta politica. Porsi il problema della sovranità, e riconoscere confini e territori, significa già uscire dal puro radicalismo della ribellione. Un sovranismo maturo dovrebbe infatti porsi il problema di rifondare la sovranità e non solo di declamare il principio di essere “padroni a casa nostra”. Significa restituire al politico il compito della decisione sovrana, assegnare allo Stato il ruolo di riferimento, riconoscere autorevolezza a chi è investito dal ruolo di dirigere, educare, governare. Guardando alla realtà contemporanea colgo due aspetti contraddittori. Da una parte, in positivo, in tutto il mondo, dalla Russia agli Stati Uniti, dall’Ungheria alla Polonia, dall’India al Giappone, dalle Filippine al Brasile, per non dire dei cospicui movimenti popolari che dalla Gran Bretagna alla Francia, all’Italia, alla Spagna, muove verso il decisionismo e il sovranismo nazionale. Dall’altra parte, molti di questi leader non hanno una strategia, uno spessore e una visione culturale, sanno compiacere i popoli e attirare i consensi, ma sbandano paurosamente tra forme velleitarie di anticapitalismo (tipo venezuelano) a forme subalterne di liberismo (in parte Bolsonaro, Trump e altri), o ricadono in forme di autocrazia ai limiti oppure oltre il dispotismo (Erdogan, in parte Putin che pure è il più lucido statista della nostra epoca).
3. Dipingere il populismo come “rivolta del popolo contro le élite” è un’ottima trovata propagandistica. Ma può esistere davvero un modello politico che faccia a meno delle élite?
Sostengo da tempo che è un errore contrapporre i popoli alle élite: è giusto opporre la sovranità dei popoli e delle nazioni all’establishment composto da caste, sette, oligarchie. Ed è giusto stabilire il primato della vita reale dei popoli sull’assetto contabile degli stati. Ma tutti i popoli, gli stati, le società hanno bisogno di classi dirigenti, di élite, di aristocrazie. Ma devono essere classi dirigenti, non classi dominanti, o peggio sovrastanti, senza nemmeno curarsi di chi sta sotto. Ai fautori sgangherati della democrazia diretta e dell’autogoverno dei popoli oppongo da tempo l’idea che la vera linea divisoria tra governi buoni e governi cattivi, sia quella di governi di pochi nell’interesse dei molti e governi dei pochi nell’interesse dei pochi. Ma l’autogoverno della società non esiste, è una rovinosa utopia. Il limite dei populismi odierni è di non aver formato, individuato un’élite e una cultura di riferimento. Avversare le oligarchie non vuol dire abbracciare l’oclocrazia, il governo della plebe.
4. Un tuo libro di qualche anno fa si chiama Dio, patria e famiglia. In occasione dell’8 marzo, la senatrice del Pd Monica Cirinnà si è fatta ritrarre con un cartello con su scritte quelle tre parole e il commento “che vita di merda”. Cosa ci dice questo della crisi della sinistra?
La sinistra nasce “contro” l’idea di Dio, della patria e della famiglia, è scritto nel suo certificato di nascita; poi nel tempo ha modificato alcuni atteggiamenti, diversificato i piani e le critiche. Ma il suo segno distintivo e comune, dalla sinistra marxista alla sinistra radical e liberal, dai comunisti ai socialisti e ai progressisti è sempre stata l’opposizione radicale al mondo fondato sul senso religioso, l’amor patrio e il legame famigliare. Quel che colpisce è la miseria volgare degli ultimi saldi di fine stagione della sinistra, quei cortei, quegli slogan, quei cartelli, non agitati da oscuri militanti della mitica base, ma da parlamentari che hanno avuto pure importanti responsabilità legislative. È segno di un declino, di un abbassamento e una dichiarazione d’odio apriori che non colpisce solo – come essi dicono – i “fascisti” ma tutti i cattolici non bergogliani, i conservatori, i fautori della tradizione, i populisti, i sovranisti, le persone di buon senso, perfino i moderati che si riconoscono in quei principi.
Si può certo parlare, come io feci in Dio, patria e famiglia, del declino di quei principi, ma non si può certo negare che ogni civiltà è sorta e si è mantenuta intorno a quei principi, a quelle strutture, a quel patrimonio vitale e ideale, storico e sacrale. Perché quei tre principi, al di là della retorica tardoborghese o reazionaria, indicano tre bisogni fondamentali e costitutivi della nostra umanità: la necessità di proiezione, di protezione e di connessione. Ossia abbiamo bisogno di proiettarci oltre noi, riconoscendo i nostri limiti; abbiamo bisogno di sicurezze e protezioni; abbiamo bisogno di connetterci agli altri, a chi ci ha preceduto, a chi verrà, e alla trascendenza.
5. Lo scorso marzo c’è stato il centenario della fondazione dei fasci di combattimento. Perché il fascismo ossessiona ancora così tanto la nostra epoca?
Il fascismo è diventato il punto di confluenza, la bad company, il Demonio e al tempo stesso il Capro Espiatorio, di ogni male. E dunque l’alibi per ogni fallimento dei nostri anni. L’ossessione del fascismo elevato a categoria eterna e universale, Ur-fascismo, è anche la rivelazione del fallimento dell’antifascismo. Negli ultimi anni il fascismo è stato ridotto al razzismo, che obbiettivamente fu un corpo estraneo al fascismo, almeno fino alle infami leggi razziali legate alla contingenza di tempi e di alleanze, dopo l’isolamento con le sanzioni.
Il fascismo nasce come eresia nazionale del socialismo e finisce a Salò come eresia sociale del nazionalismo. La sua forza e la sua originalità fu quella di portare a sintesi il dato sociale e il dato nazionale, il popolo e le gerarchie, la rivoluzione e la tradizione. La sua dannazione fu l’idea che si possa imporre al mondo la propria volontà di potenza, attraverso la guerra, la coercizione interna e il primato di una nazione sulle altre. La demonizzazione del fascismo, delle sue opere, della sua storia e delle sue tracce, non consente di metabolizzarlo nella storia d’Italia, di digerirlo e assumerlo nella nostra autobiografia nazionale, cogliendone grandezze e nefandezze.
6.Il tuo percorso intellettuale è iniziato con un libro, tratto dalla tua tesi di laurea, sul pensiero di Julius Evola. Nel 2019, cosa è vivo e cosa è morto del pensiero evoliano?
Quarant’anni fa uscì la mia tesi di laurea dedicata a Evola. Nell’arco di questi decenni non ho mutato il giudizio nei suoi confronti, la gratitudine verso le sue opere possenti che aprivano ardite ma grandiose visioni del mondo, ma anche la critica verso alcuni tratti a mio parere contraddittori del suo pensiero e del suo tradizionalismo integrale, a cui mi riferivo già in quel libro-tesi. Curiosa e contraddittoria era la genesi soggettivista, sovrumanista e libertaria del suo pensiero, che lo accomuna al mondo moderno assai più di quanto si possa a prima vista ritenere. Del resto, il dadaismo, l’individuo assoluto, il rifiuto di Dio, della patria e della famiglia, la convinzione che la libertà sia il prius assoluto da cui partire e non sia invece il destino, come ci sarebbe da aspettarsi in un pensiero tradizionale, configurano come atipica la sua posizione. Ma restano le sue potenti suggestioni, le sue lucide letture del mondo contemporaneo, la sua capacità di incidere e di trasformare i suoi lettori. In tutto questo sembra davvero assurda la riduzione persistente di Evola al razzismo. Penso che Evola sia un grande punto di partenza o di passaggio, non di approdo.