Bombacci, il comunista che morì da fascista

Gli scherzi della storia. Il primo comunista italiano, amico personale di Lenin, morì da fascista, fucilato a Dongo e poi appeso per i piedi dai suoi ex-compagni a Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Era Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Finì col rappresentare il fascismo socialrivoluzionario.

A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti si occupa in particolare, con dovizia di fonti e di particolari, del ruolo di Bombacci nella Repubblica Sociale a Salò, ne ricostruisce i nessi e la storia, le sue relazioni con Mussolini. E restituisce un personaggio controverso ma cruciale, rimasto a lungo nella penombra perché imbarazzante quasi per tutti, fascisti, antifascisti e comunisti. Bombacci fu una figura leggendaria, un personaggio che meriterebbe un film, una fiction televisiva, una narrazione popolare perché racchiude nella sua esperienza le due principali rivoluzioni del Novecento che si incrociarono nel sangue dopo la Prima guerra mondiale e poi negli ultimi due anni della seconda.

Nel 1921 Nicola Bombacci fondò insieme a Gramsci, Togliatti, Tasca e ad altri fuorusciti dal Psi il Partito Comunista d’Italia. Fu proprio lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. “Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo” così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata. Romagnolo come lui, quattro anni più di Mussolini, maestro elementare pure lui, cacciato anch’egli dalla scuola perché sovversivo, compagno di lotte, di prigione e di giornali del futuro duce, e come lui nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista e fascista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso ed esposto con lui a piazzale Loreto, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva Mussolini (o “l’Italia,” secondo altri).

A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin) e da una famiglia cattolica e papalina di Civitella di Romagna; egli dunque attraversò nella sua vita tutte le fedi nazionali: il cristianesimo, il socialismo, il comunismo e il fascismo. Pagando sempre di persona. L’anno in cui fondò il Pcd’I, Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci/ faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba fluente. Barba e zazzera biondastre e incolte, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce lenta e appassionata, impetuoso oratore e trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: “una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…” Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, perché i suoi occhi e la sua parola stregavano le donne, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio quando questi proclamò a Fiume la Carta del Carnaro.

Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: “li conosco i comunisti, sono figli miei”. Fu Bombacci a organizzare la clamorosa uscita del folto gruppo parlamentare socialista alla Camera il giorno dell’insediamento, prima che parlasse il Re, al grido di Viva il socialismo. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani ad essere ricevuto in separata sede da Lenin nel 1920. Prima di partire, Bombacci ricevette da Lenin denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del Partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincise, forse non casualmente, con il 28 ottobre del 1922 quando i fascisti marciarono su Roma. Fu così che mentre i leader comunisti italiani erano a Mosca a festeggiare la rivoluzione bolscevica, Mussolini conquistava senza resistenze rosse il potere a Roma. Da allora Bombacci, collaboratore della Pravda, diventò un sostenitore dell’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in parlamento. Bombacci poi sostenne la necessità per i comunisti di infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come entrismo negli anni 30). Fu lui il primo comunista a entrare nella Camera dopo l’avvento di Mussolini al potere. Non fu arrestato né aggredito, come si temeva. Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia di Mussolini era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici, a quanto pare, suo tramite. Bombacci andò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin, e fu il più apprezzato tra gli italiani. Incontrò più volte anche Stalin.

Bombacci fu espulso dal partito per deviazionismo e indegnità politico-morale il 1928, dopo aver dato vita al primo traffico commerciale tra l’Italia e l’Urss attraverso un’agenzia di export-import con l’est comunista; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Anche allora si parlò di tangenti, i comunisti lasciarono cadere i sospetti su di lui, ma Bombacci continuò per tutta la sua vita a navigare tra i debiti, aiutato poi proprio dal suo antico compagno e rivale Mussolini. Che prima aiutò i suoi famigliari e poi gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. Mussolini gli finanziò pure l’unico giornale fasciocomunista degli anni Trenta, La Verità, che già nella testata ricordava la Pravda. Un giornale odiato da Starace e dai fascisti, che continuò a uscire fino al 1943. Dalle sue pagine fu anche teorizzata l’Autarchia. Bombacci perseguì nella rivista il progetto di unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino fino al ’41, quando la rottura del patto Molotov-Ribbentrop e l’alleanza del comunismo con le plutocrazie occidentali lo portò a condannare l’abbraccio con il capitalismo e a schierarsi con il fascismo.

Ai tempi di Salò Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più quella rivoluzionaria e incolta, da Garibaldi o Che Guevara; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati e più borghesi. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista fascista Francesco Grossi lo ricorda così: “con le inflessioni romagnole ineliminabili”, “caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore”. Il suo ruolo nella Rsi fu decisivo: si deve a lui l’uso del termine socializzazione e fu lui a scrivere la prima bozza che dette vita alla Carta di Verona e a sognare, insieme al fascismo di sinistra, la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee.

In quel tempo Bombacci e Carlo Silvestri volevano riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento: Vincenti qui ne approfondisce i passaggi. Con Silvestri Bombacci promosse e sostenne l’estremo tentativo di Mussolini di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria attraverso un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: memorabile fu il suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del 1945, in cui ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in un’ingenua lettera entusiasta a Mussolini. Era ancora convinto che la forza dei discorsi potesse superare la forza delle armi e modificare la realtà. Fu così che Bombacci si ritrovò fino all’ultimo con Mussolini, nella colonna fermata a Dongo. Per essere poi fucilato ed esposto con il cartello di supertraditore. Di lui caduto si ricordano gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.

MV, prefazione a A sognare la repubblica di Fabrizio Vincenti, Eclettica edizioni (2020)

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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