L’8 settembre

Cosa resta negli italiani dell’8 settembre del ’43? Nella memoria poco o niente, nel carattere tanto o tutto. Resta lo spaesamento, anche nel senso etimologico di perdita del Paese.

Resta la desolazione, anche nel senso di perdita del suolo. Resta la fine dello Stato, alibi sontuoso per il sisalvichipuò dell’egoismo e del familismo. Resta la religione dei Kazzimiei.

Dell’8 settembre resta poi il disprezzo per le classi dirigenti, la voglia di scappare dalla storia o di defilarsi, la via del tradimento e della resa pur di non caricarsi di responsabilità e tirare a campare.

E restano i rancori tra le fazioni, anche se si è dimenticata la ragione storica e ideale che le animava. Resta il peggiore degli antifascismi, quello a babbo morto, a fascismo caduto e poi sepolto.

Insomma lo spirito dell’8 settembre è ancora in noi ed è il primo muro che ci separa dall’amor patrio. Non a caso, i giornali hanno cominciato a ricordare dell’8 settembre il decennale del Vaffa day di Beppe Grillo e non il dramma di una Nazione. Anche questa è una conseguenza dell’8 settembre del ’43, l’effetto estremo di quella tragedia.

Una falsa data

Però l’8 settembre del ’43 è una falsa data. L’armistizio di Cassibile risale in realtà al 3 settembre e quel silenzio ufficiale di 5 giorni ebbe un peso rilevante sull’Italia, sull’atteggiamento dei tedeschi e sul piano internazionale.

L’8 settembre fu una data drammaturgica perché l’armistizio andò in scena per il pubblico. Quel 3 settembre culminò poi nel 29 settembre quando l’Italia firmò a Malta l’armistizio vero e proprio (il cosiddetto armistizio lungo) e ufficializzò la sua posizione a fianco degli angloamericani.

Da quel settembre si aprì tra l’altro ai confini nord-orientali una pagina dolorosa: la ritirata dei tedeschi consentì l’avanzata dei partigiani di Tito che con l’aiuto dei partigiani comunisti italiani occuparono le terre dalmate e istriane, riempendo di sangue le foibe.

Circa 14mila italiani furono violentati, massacrati e gettati nelle fosse carsiche, oltre 300mila gli esuli. All’oblio lungo e odioso si aggiunse l’oltraggio di Stato che assegnò oltre 30mila pensioni agli infoibatori con il privilegio aggiuntivo della reversibilità della pensione al 100%.

L’8 settembre ebbe pure queste conseguenze, oltre lo scannatoio della guerra civile.

L’8 settembre non ricorda poi l’Italia divisa in due, come ripetono i somari e i sommari di storia, perché l’Italia non si spaccò in due ma in quattro: l’Italia fascista, l’Italia partigiana, l’Italia sabauda-badogliana e l’Italia neutrale, già democristiana in pectore.

L’Italia si fece in quattro

L’8 settembre non fu il bivio tra chi restò a fianco dei tedeschi e chi passò al fianco degli alleati; prevalse la frantumazione del Paese, l’individualismo e il familismo. L’Italia si fece in quattro, come quando si traccia una croce su un cerchio.

Ci fu l’Italia che si strinse intorno alla monarchia e riconobbe nel Re l’ultimo straccio di legittimità dello Stato, un’Italia in prevalenza moderata e centro-meridionale.

Ci fu un’Italia che si sentì fascista malgrado tutto, o almeno solidale con Mussolini e il regime, che identificava con l’Italia; o solo legata a un impegno d’onore, un patto, una guerra intrapresa.

Ci fu poi un’Italia che si riconobbe nella lotta partigiana nel nome della libertà ma per molti di loro lo scopo finale era la rivoluzione per instaurare in Italia il comunismo, i soviet e la dittatura del proletariato.

E ci fu infine un’Italia neutrale che non si riconosceva in nessuna delle italie configgenti, prudente, impolitica e cattolica, che innalzava il suo “Tengo famiglia” e allargava le braccia come Papa Pacelli tra la folla, dopo i bombardamenti a San Lorenzo per abbandonarsi tra le braccia della Provvidenza.

Ogni spicchio era una fetta verace d’Italia.

L’8 settembre non ci fu la morte della patria ma si sciolse il nesso tra la patria e il senso dello stato, tra gli italiani e lo spirito pubblico. Una nazione allo sbando, in cui gli sbandati si sentirono divisi in bande che poi divennero partiti.

Il senso civico fu sostituito dal senso cinico, e lo Stato dai Partiti, la fede dall’ideologia. Secoli di dominazioni straniere, guerre mondiali e civili, regimi e orrori possono ferire ma non abolire un’identità.

Da allora la patria cominciò a morire ma restò conficcata e sommersa nell’anima profonda degli italiani, gravidi di una resurrezione che deve ancora avvenire.

L’8 settembre gli italiani furono spaesati e si barricarono in famiglia; ma l’Italia restò l’Italia, nel bene e nel male, inghiottì le sue tragedie dentro il suo grembo atavico. Perché una patria è quel che resta dopo l’uragano.

MV, Il Tempo 7 settembre 2017

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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